L'analisi del cepr
Altro che bonus a pioggia. Per contenere l'inflazione meglio puntare su interventi mirati
L’ultimo studio del Centre for economic policy research evidenzia gli effetti regressivi della crisi sui redditi degli italiani. Lo stato serve, ma serve che spenda bene: nel 2022 soltanto un decimo delle risorse impiegate ha coinvolto la tipologia di contromisure più efficaci
Come arginare gli effetti dell’inflazione? Più bonus sociali, meno voucher e acrobazie sui prezzi della benzina. È il risultato dell’analisi tracciata dal Centre for economic policy research (Cepr), prendendo in considerazione il nostro paese nel 2022. Il paper, pubblicato questa settimana su Vox Eu, porta la firma di un team di ricercatori della Banca d’Italia – Nicola Curci, Marco Savegnago, Giordano Zevi, Roberta Zizza. Ed evidenzia come le varie contromisure applicate dal governo (più Draghi che Meloni, periodo in esame alla mano) abbiano avuto un impatto diverso e non sempre efficiente sui redditi delle famiglie. Il punto di partenza è la congiuntura economica eccezionale in corso. Nell’anno appena concluso, l’aumento medio dell’inflazione in Italia (fonte Istat) è stato dell’8,1 per cento, con picchi dell’11,8 nel mese di novembre: si tratta del dato più alto dal 1985.
Prima la pandemia, poi le ricadute della guerra in Ucraina e la crisi dei beni energetici hanno minato il potere d’acquisto delle famiglie. Soprattutto per le fasce più deboli, con le più abbienti invece pronte a catalizzare un’ulteriore concentrazione della ricchezza. Ma gli effetti redistributivi dell’inflazione, dimostra il paper attraverso strumenti di microsimulazione e analisi econometrica, sarebbero stati ancora peggiori senza l’intervento dello stato. Perché la fiammata inflazionistica (ipotesi alternativa) avrebbe sfiorato una crescita media annuale dell’11 per cento. Il team del Cepr si è avvalso inoltre del coefficiente di Gini, un indicatore statistico della disuguaglianza dei redditi disponibili, per quantificare con precisione l’efficacia dell’azione governativa. Alla quale si riconosce di aver neutralizzato fino al 70 per cento della natura regressiva dello shock inflazionistico. Quindi bene, ma c’erano margini per fare di più. E soprattutto, utilizzando meno risorse.
Lo sforzo dell’esecutivo è costato infatti circa 32 miliardi complessivi, tra bonus sociali per il caro bollette alle famiglie in condizioni di disagio (3,2), interventi in quota fissa sui salari netti (voucher o straordinari assegnati ai dipendenti pubblici, 12,5) e riduzioni non mirate dei prezzi dell’energia (tra cui il taglio delle accise sul carburante, 16,1). La scoperta più interessante è che le politiche meno esose sono state anche le più efficaci: l’effetto redistributivo di sconti in bolletta e simili, poiché calibrati sulle effettive esigenze dei nuclei famigliari, è stato quasi pari a quello di ciascuna delle altre due categorie. Eppure è costato alle finanze pubbliche rispettivamente un quarto e un quinto. Tradotto, spendendo meno ma meglio l’Italia avrebbe assorbito più facilmente lo shock. Questo non considerando che la stagione degli interventi a pioggia tanto cara al Conte bis, nel 2022, era già alle spalle.
Lezioni preziose, che tuttavia non devono prestare il fianco a facili retoriche: è questione di mira e di emergenza, mica di assistenzialismo. Visto che con la superinflazione dovremo convivere almeno un altro anno, meglio farne tesoro. E rispetto al governo Draghi, Meloni può contare su un innegabile vantaggio: lo scenario su cui operare è quello che si è già realizzato. Senza bisogno delle ipotesi alternative formulate dal Cepr. Avanti coi bonus intelligenti, allora.