il colloquio
In Italia "le grandi dimissioni" significano cambiare lavoro. Parla Seghezzi
In nove mesi un milione e seicento mila italiani hanno lasciato il lavoro, ma l'obiettivo è trovarne uno migliore. Dietro c'è un'attenzione “sia ai termini salariali sia ad altri aspetti come l'orario o le prospettive di miglioramento personale”, ci dice il presidente di Adapt
Sono un milione e seicento mila gli italiani che negli ultimi nove mesi del 2022 hanno deciso di abbandonare il loro posto di lavoro: un numero che trova conferma nella recente relazione del ministero del Lavoro riguardo l'ultimo trimestre dello scorso anno. Confrontata con i dati del 2021, la crescita di dimissioni in Italia è evidente: sono il 22 per cento in più (sempre su nove mesi), di cui 35 mila nell'ultimo trimestre (+6,6 per cento). Per Francesco Seghezzi, esperto di mercato del lavoro e presidente della fondazione Adapt, bisogna però fare attenzione nell'interpretare correttamente il fenomeno. “I numeri assoluti non sono in sé così alti: il punto è la costanza nella crescita”, ci dice commentando le sensazionalistiche reazioni dell'opinione pubblica. “Le dimissioni sono sempre esistite: non è che prima fossero a zero e all'improvviso esplodono”. Inoltre, paragonando il contesto italiano con l'orientamento degli altri paesi, “il fenomeno quantitativamente è ancora ridotto e non abbiamo certo i livelli anglosassoni di turnover”. Si tratta pertanto di una crescita graduale, di cui Seghezzi ripercorre la genesi.
Il punto di partenza è l'uscita dalla pandemia. “Dopo due anni di Covid e la lentezza dei mercati si è creata una dinamica che ormai è diventata normale”: una consapevolezza trasversale che si è consolidata tanto nei settori medio-alti, quanto in quelli più bassi. Si tratta di una sensibilità attenta “sia ai termini salariali sia ad altri aspetti come l'orario o le prospettive di miglioramento personale”. Se per i settori medio-alti ciò significa la ricerca di un luogo dove “potersi esprimere al meglio”, valorizzando le “competenze” di cui ci si crede dotati, anche nei settori più bassi si riscontra una dinamica analoga: in questo caso, con la richiesta di maggiore stabilità e di sicurezza sul medio-lungo termine.
Ormai non può essere considerato soltanto un “rimbalzo”, che ha avuto origine dall'allentamento delle restrizioni pandemiche: i dati del 2022 mostrano secondo Seghezzi come questa consapevolezza si stia sedimentando in una buona parte della società italiana, che ha così scoperto una mobilità lavorativa prima sconosciuta. Le "grandi dimissioni" infatti, come le si è definite traslitterando l'equivalente americano, si possono per Seghezzi sintetizzare in un unico processo: “Si lascia un lavoro peggiore per uno migliore”. Sono grandi trasferimenti perciò, oltre che grandi dimissioni.
La domanda che sorge spontanea è se il mercato sia o meno capace di assorbire le esigenze di chi lascia il proprio lavoro per cercarne un altro. Anche in questo caso le cifre ci danno alcune indicazioni: alle 35 mila dimissioni dell'ultimo trimestre, ha corrisposto nel medesimo periodo l'attivazione di 3 milioni e 155 mila posti di lavoro che hanno riguardato 2 milioni e 453 mila persone. La spinta a cercare un lavoro diverso non rimane perciò allo stadio del desiderio ma trova conferma nei dati del ministero.
Se da un lato la stabilità della crescita del numero di dimissioni conferma l'impressione di una tendenza strutturale, dall'altro ci sono per Seghezzi alcuni elementi congiunturali che hanno assecondato l'aumento nell'ultimo trimestre. “Il movimento di persone è favorito dai numeri importanti dei concorsi pubblici, ma è anche condizionato da alcuni settori come quello delle costruzioni”. Bisognerà dunque valutare se anche nel 2023, scomparsi o affievoliti gli effetti degli attuali fattori contingenti, il trend continuerà oppure no.