Prospettive
Brescia e Bergamo capitale della Cultura per colmare il vuoto fra centro e periferia
Milano e basta, dice l’adagio. Ma le due città lombarde vogliono ridurre le distanze economiche e non solo
Domenica scorsa è stata festa in piazza a Bergamo e Brescia. L’attribuzione del titolo temporaneo di Capitale della cultura è stato declinato dalle due città in chiave popolare: mentre altri centri in precedenza si erano limitati ad allestire un cartellone di eventi o a sfruttare l’occasione in chiave di promozione turistica, le gemelle dell’industria manifatturiera hanno allargato il campo di gioco. A Bergamo i giornali locali hanno parlato di 21 mila persone in piazza con quattro cortei e un corredo di trampolieri, divise garibaldine, maschere di Arlecchino e dotti riferimenti al maestro Donizetti. Accanto alla tradizione la città ha voluto mettere in campo la contemporaneità, da qui lo spettacolo dei Nuovi Mille con l’apertura alle comunità straniere largamente presenti in città. In migliaia a Brescia hanno seguìto cantanti e Ambra Angiolini esibirsi sul palco e ci sono state feste in dieci comuni della provincia. “Divisi sugli spalti, uniti nel dolore”, recitava uno striscione dei tempi della pandemia e così, messa da parte la rivalità calcistica tra la Dea e le Rondinelle (resta epica la corsa di Carletto Mazzone per esultare sotto la curva nerazzurra), il dopo Covid è diventato se non un progetto, sicuramente una suggestione forte. Dopo l’inaugurazione è prevista un’alluvione di eventi nel corso dell’anno (circa 500, il 70 per cento condiviso) e avremo un test più probante sulla tenuta delle premesse emerse in una domenica di gennaio.
L’idea che coltivano i due sindaci dem, Giorgio Gori ed Emilio Del Bono (in uscita), è che Bergamo e Brescia possano farsi polo, possano provare a rimescolare gli equilibri territoriali della regione più ricca d’Italia (circa un quarto del pil e il 30 per cento dell’export). Farsi polo sommando l’esistente sarebbe un’operazione tutto sommato facile: si conteggerebbero i rispettivi pil, le imprese, le utility, l’apporto all’export e via di questo passo. I numeri che si raggiungerebbero – ve li risparmiamo – sarebbero sicuramente significativi ma resterebbero troppo ancorati a terra, alla materialità delle relazioni tra le due città. Farsi polo reca con sé invece un’ambizione più larga: valorizzare i rispettivi patrimoni culturali in maniera strutturale, accrescere l’attrazione di turisti, migliorare la mobilità nelle e tra le città, costruire nella regione A4, quella dell’autostrada del nuovo Triangolo industriale, un avamposto di pratiche comuni, di scambi culturali e di antropologia fattiva. Da fuori può venire la tentazione di dire che si tratta di un’operazione sensata e persino benemerita ma che alla fine riguarda solo le due cittadinanze e le rispettive élite. E invece no.
Aumentare il peso specifico delle due province, accrescere il loro soft power e non solo conteggiare il loro apporto al pil, dovrebbe servire a riequilibrare una regione che fatica a camminare nella stessa direzione.ì Un’abbinata Bergamo-Brescia ovviamente non potrebbe mai essere “contro” Milano se non altro per evitare l’autolesionismo, sarebbe costretta a marciare “con” Milano ma rimettendo in moto equilibri regionali congelati. Che ci sia un enorme problema di relazione tra Milano e la sua regione non sfugge a nessuno. E non solo perché l’orientamento degli elettori è opposto, a sinistra nella metropoli e a destra nel contado. C’è una differenza antropologica così larga che non si riesce a ridurre, nonostante i flussi di persone che ogni giorno si recano nella capitale morale e quindi respirano gli stessi umori. Nel 2019 si calcolava che fossero un milione (contro 1,4 milioni di residenti), oggi con lo smart working a singhiozzo è difficile avere un numero certo (il sindaco Beppe Sala parla di 800 mila persone) ma quelli che dormono in città alla fine sono diversi da quelli che la usano durante il giorno. Sono diversi nell’adesione ai riti della cultura cosmopolita, negli stili di vita, nella scelta del cibo, nel valore assegnato a luoghi e simboli.
“Milano viaggia a un’altezza che fatica a incrociare lo sguardo degli altri”, chiosa il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. E conferma il collega di Brescia, Emilio Del Bono: “Ci sono distanze culturali che si vedono a occhio nudo, è un intero senso comune a fare la differenza”. Se volessimo attingere al lessico della macroeconomia potrebbe dire che c’è un crescente decoupling tra Milano e la Lombardia, un disaccoppiamento. L’idea delle élite milanesi era che la metropoli puntando in alto automaticamente avrebbe fatto “sgocciolare” il dividendo del successo sui territori – così come su chi vive ai margini della grande città – ma non è andata così. Il posizionamento internazionale di Milano testimoniato dal fatto che sia diventata una meta turistica anche sotto Natale e dall’attrazione di studenti stranieri nelle sue università non serve a cucire il rapporto con i territori, che per le loro traiettorie di sviluppo seguono altri indirizzi e altre logiche. Aldo Bonomi a questo proposito ha parlato di quattro Lombardie (la Valtellina, la zona pedemontana, la piattaforma milanese e la campagna del sud della regione) che non riescono a trovare sintesi. Ed è un incredibile paradosso che la regione più internazionalizzata e terziarizzata, più forte nel manifatturiero, con l’agricoltura più sviluppata non riesca a mettere a fattor comune questi asset. E’ un problema – e qui torniamo ai discorsi di Gori e Del Bono – di mancata mediazione antropologica e culturale e di conseguenza che due province così saldamente ancorate all’industria abbiano accettato la sfida della Capitale della cultura è sicuramente un atto di coraggio. Una sfida. Che ha un valore non solo per ciò che dall’abbinata temporanea tra la Leonessa e la Città dei Mille riuscirà a diventare stabile ma anche perché nella morta gora dell’incomunicabilità tra Milano e il suo contado introduce una discontinuità. Poi che la campagna elettorale in corso per rinnovare il governo regionale non parli di questi temi, consideri il consenso dei metropolitani residuale e non riesca a interessare i cittadini è forse l’ennesima conferma dell’autoreferenzialità della politica e della probabilissima vittoria di Attilio Fontana. Ma Milano può cavarsela continuando a ripetersi a mo’ di jingle “che gioca in un altro campionato”?