I dati
La ripresa post Covid fa segnare 984 mila occupati in più. E molti altri ne serviranno
Se, come prevede la Banca centrale, l’Italia eviterà la recessione quest’anno, il tasso di disoccupazione dovrebbe rimanere stabile: un livello che rimane però ancora troppo alto. Il governo dovrebbe mettere in primo piano la crescita del prodotto lordo, non la sua redistribuzione
Un milione di posti di lavoro. Li aveva promessi Silvio Berlusconi un ventennio fa, è toccato a Mario Draghi raggiungere il traguardo. E parliamo di occupati dipendenti nel settore privato, quindi escluse Pubblica amministrazione, agricoltura, partite Iva, al netto di chi ha lasciato per la pensione o perché licenziato. Il dato emerge dalla nota congiunta sul mercato del lavoro di ministero del Lavoro, Banca d'Italia e Anpal, nella quale si sottolinea che “la ripresa ha riassorbito la caduta causata dall’emergenza sanitaria”. In particolare, nel 2021 le nuove buste paga sono state 602 mila in più e nel 2022 circa 382 mila in più, in totale fa +984 mila. Nei primi undici mesi dell’anno trascorso i disoccupati sono diminuiti di circa 120 mila unità, un calo significativo anche se meno pronunciato del 2021. Nella seconda metà del 2022 la frenata della produzione industriale ha avuto un effetto negativo sul mercato del lavoro e il numero dei disoccupati è tornato ad aumentare. Se, come prevede la Banca centrale, l’Italia eviterà la recessione quest’anno (Ignazio Visco ha parlato di un pil che sale dello 0,6 per cento), il tasso di disoccupazione dovrebbe rimanere stabile (8,2 per cento rispetto all’8,1 del 2022). Un livello ancora troppo alto, se si pensa che in Germania la disoccupazione è appena il 2,8 per cento (dato di novembre). Ciò dovrebbe indurre governo, imprese e sindacati a mettere in primo piano la crescita del prodotto lordo non la sua redistribuzione come invece si continua a fare.
Quel milione di nuovi occupati, non precari perché per lo più si tratta di contratti a tempo indeterminato, è il frutto del boom post Covid, tuttavia sarebbe ora di guardare alle dinamiche del mercato del lavoro con un’ottica diversa, evitando il solito piagnisteo. Di qui al 2025 nel privato e nel pubblico ci sarà bisogno di quasi 4 milioni di lavoratori in più: 2,6 per il turnover e il resto per far fronte all’aumento della produzione. Nel privato si prevede che la richiesta sia compresa tra 1,7 e 2,1 milioni di dipendenti e tra 1 e 1,1 milioni di autonomi. La Pubblica amministrazione avrà bisogno di oltre 740 mila nuovi occupati, oltre 690 mila dei quali per rimpiazzare chi va in pensione. Il problema, dunque, non è che mancano i posti (anche se se ne potrebbero creare anche di più spingendo in alto il pil), ma che non c’è chi li può riempire. Secondo l’Istat sarebbe possibile impiegare quasi mezzo milione di persone in più. Stime di fonte imprenditoriale parlano di un’azienda su tre che non riesce a trovare il personale necessario. Non è un fenomeno solo italiano, si manifesta in tutti i paesi europei in calo demografico, come la Germania, ma in Italia la forbice tra domanda e offerta è particolarmente ampia. Mentre i tedeschi hanno il pieno impiego, in Italia il tasso di disoccupazione è quasi tre volte più alto.
Istat e Bankitalia gettano anche uno sguardo sulla ricchezza smentendo un’altra lagna diventata leitmotiv della politica populista e dei media che la infiammano. Non siamo diventati tutti più poveri, semmai è l’inflazione che intacca risparmi e patrimoni. Alla fine del 2021 la ricchezza netta delle famiglie italiane, misurata come somma di attività reali (abitazioni, terreni) e finanziarie (depositi, titoli, azioni) al netto delle passività finanziarie, era pari a 10.422 miliardi di euro, ossia 176 mila euro pro capite. C’è stato un aumento di oltre 300 miliardi di euro rispetto all’anno precedente (+3 per cento), proseguendo il trend del 2019 non interrotto dalla pandemia. Le passività finanziarie sono aumentate del 3,7 per cento, superando a fine 2021 la soglia dei mille miliardi. Le attività reali, pari a 6.186 miliardi di euro, sono cresciute dello 0,3 per cento a prezzi correnti (+16 miliardi), soprattutto per effetto delle abitazioni (+0,4 per cento; +23 miliardi), in crescita per la prima volta dal 2012. I depositi in banca sono aumentati di 70 miliardi di euro dopo i 104 miliardi del 2020.
Queste le buone notizie che non si vuole sentir dire. Non tutto brilla, sia chiaro. L’aumento monetario non ha compensato la ripresa dell’inflazione, così in termini reali c’è stata una riduzione dell’1,1 per cento. Inoltre l’Italia soffre il paragone con gli altri paesi. Misurata in rapporto alla popolazione, la ricchezza netta pro capite alla fine del 2021 era superiore solo a quella della Spagna (dove però l’ultimo dato disponibile è del 2020), un divario provocato dalla stagnazione ventennale del prodotto lordo. Ridurre il gap è possibile solo crescendo più degli altri e aumentando la torta, non dividendo quel che c’è.