Le cause dell'alta inflazione e come venirne fuori
I rischi della spirale prezzi-salari, i limiti della politica fiscale e dei redditi, le critiche eccessive alla Bce
A cosa è dovuta la recente ondata di inflazione nell’economia mondiale? Una risposta semplice ma in prima approssimazione corretta è che l’aumento dei costi delle materie prime e vari colli di bottiglia nella produzione di beni intermedi – causati dal difficile riaggiustamento dell’economia mondiale post-pandemia – hanno spinto le imprese ad alzare i prezzi. L’effetto è una perdita di potere di acquisto per le famiglie. E’ questo un risultato inevitabile? Come si può contrastare? Ed è la politica monetaria della Bce l’unico strumento di politica economica a disposizione?
Shock di offerta
Prima di tutto è importante richiamare un principio di fondo. Quando un’economia è colpita da uno shock di offerta come quello descritto sopra, l’inflazione che ne segue è un segnale che alcune risorse, necessarie all’attività economica, sono diventate più scarse del solito. L’inflazione è il sintomo di questa scarsità. Il rischio maggiore è che lo shock iniziale inneschi una cosiddetta spirale dei prezzi e dei salari. Le imprese alzano i prezzi, i lavoratori chiedono aumenti salariali per contrastare l’aumento del costo della vita, il costo del lavoro sale, le imprese alzano i prezzi ancora di più. L’inflazione in questa situazione riflette una fondamentale inconsistenza tra gli obiettivi di lavoratori e imprese. I lavoratori sperano di recuperare il potere d’acquisto che avevano prima dello shock, le imprese sperano di recuperare i margini di guadagno che avevano prima dello shock. Questo non è possibile: lo shock ha reso la torta più piccola. L’inflazione nasce dal fatto che lavoratori e imprese non riescano a mettersi d’accordo, a livello aggregato, su come dividere una torta più piccola.
Un breve inciso: è importante ricordare che stiamo descrivendo non una singola impresa e i suoi lavoratori, ma tutte le imprese e tutti i lavoratori che compongono un’economia. Il potere d’acquisto di un lavoratore nel settore alberghiero dipende dalle decisioni di prezzo di un’enorme varietà di imprese, dal panettiere sotto casa alla multinazionale che gli offre una cellulare nuovo. Per cui quando diciamo che bisogna “mettersi d’accordo”, usiamo una metafora per rappresentare la moltitudine di processi negoziali e decisioni d’impresa che vanno a definire il sistema dei prezzi di un paese.
Quello che è deleterio nella rincorsa tra prezzi e salari non è il tentativo, totalmente comprensibile, dei lavoratori di difendere il loro potere d’acquisto. Il problema è che questo tentativo è destinato a fallire e che porta solo a una rincorsa tra prezzi e salari, in cui il potere d’acquisto delle famiglie non riesce a risalire. Ma se questa rincorsa è futile, è nondimeno dannosa per l’economia. Un’economia in cui i prezzi in euro di ogni cosa (beni, servizi, lavoro, affitti, eccetera) salgono continuamente in modo disordinato (come normalmente accade quando l’inflazione è elevata) è un’economia in cui diventa difficile fare piani per il futuro e in cui tutte le transazioni finanziarie diventano soggette a maggiore incertezza. In una parola, se non sappiamo più il valore della moneta – ossia che cosa si può comprare con un dato ammontare di euro – l’economia fa fatica a funzionare. Per questo motivo i banchieri centrali, il cui mandato esplicito è di difendere il valore della moneta, sono preoccupati dall’innescarsi della spirale prezzi-salari. Che cosa può fare una banca centrale per evitarla? Due sono i passaggi cruciali.
Le aspettative e il rischio spirale
Il primo è l’effetto che le scelte della banca centrale ha sulla spesa privata. Se la banca centrale alza i tassi di interesse, famiglie e imprese riducono l’uso del credito e spendono meno. Questo ha effetti sia sul mercato dei beni, sia sul mercato del lavoro. Sul mercato dei beni, una domanda meno forte scoraggia le imprese dall’aumentare i prezzi. A questo punto è utile tornare al problema di fondo: c’è una scarsità di materie prime (o di microchip o di navi da container o di altri input), ma quello che conta non è la loro scarsità assoluta ma quella relativa rispetto alla domanda che viene dal mercato. Se la domanda mettiamo di automobili scende, le imprese che producono automobili hanno bisogno di meno energia e materie prime per costruire automobili, e la pressione sul mercato energetico e delle materie prime è più debole. L’impresa singola non percepisce questo meccanismo che opera a livello aggregato e vede solo che i costi sono meno alti e che, allo stesso tempo, c’è meno domanda per i suoi prodotti. Entrambe queste forze la indurranno a praticare aumenti dei prezzi più moderati.
Sul mercato del lavoro gli effetti arrivano perché la domanda di lavoro sarà più debole e l’occupazione crescerà meno. Questo significa che i rappresentanti dei lavoratori che negoziano i salari saranno in una posizione contrattuale più debole e dovranno preoccuparsi maggiormente di bilanciare il desiderio di proteggere il potere d’acquisto dei lavoratori con il desiderio di proteggere il livello di occupazione. E similmente si comporteranno i lavoratori che negoziano individualmente, più preoccupati di perdere il lavoro in un mercato del lavoro più difficile.
C’è però un altro canale tramite il quale la banca centrale può prevenire la rincorsa tra prezzi e salari. Ed è il canale delle aspettative. L’aspetto peggiore della rincorsa prezzi-salari è che a un certo punto i lavoratori non cercano più solo di recuperare le perdite di potere d’acquisto passate, ma cominciano ad anticipare le mosse future delle imprese e a chiedere aumenti nominali in previsione degli aumenti che verranno, e similmente le imprese cominciano ad alzare i prezzi anticipando futuri aumenti del costo del lavoro. A volte questo sforzo di anticipare l’inflazione futura prende una forma esplicita con l’introduzione di clausole esplicite di indicizzazione dei salari nei contratti collettivi. Quando si entra in questa fase, l’inflazione diventa ancor più difficile e costosa da estirpare. In altre parole, l’economia deve passare attraverso una recessione più pesante per poter far scendere l’inflazione. Questo è il motivo per cui le banche centrali guardano con grande attenzione a tutte le statistiche disponibili sulle aspettative inflazionistiche di famiglie e imprese e sono particolarmente preoccupate che queste possano “disancorarsi.” Le azioni recenti delle banche centrali dei paesi sviluppati vanno lette soprattutto come uno sforzo di mandare un segnale il più chiaro e credibile possibile a famiglie e imprese: nei prossimi mesi faremo tutto il possibile per riportare l’inflazione a livelli accettabili.
I limiti della politica fiscale
Chiarito dunque il ruolo della banca centrale, rimane la domanda che ponevo all’inizio. Ci sono altre politiche che possono contribuire a superare la tensione inflazionistica? Qui è utile ricordare il principio di fondo: il problema originario è la scarsità relativa di alcune risorse. Seguendo questo principio è possibile valutare l’efficacia potenziale di diversi approcci “alternativi” di lotta all’inflazione. Facciamo alcuni esempi.
Prima di tutto, ci sono politiche che affrontano direttamente il problema. Per esempio, costruire terminali che facilitano l’uso di gas naturale trasportato via mare riduce la scarsità di gas naturale (almeno nei paesi destinatari, nei paesi esportatori la aumenta ovviamente). Queste politiche sicuramente aiutano. In secondo luogo, ci sono politiche che cercano di proteggere i cittadini dagli effetti più diretti dello shock. Per esempio, molti stati europei hanno usato ingenti risorse di bilancio per ridurre l’effetto degli aumenti energetici sulle famiglie. Qui ci sono varie considerazioni. Da una parte queste politiche, se praticate da molti stati contemporaneamente, finiscono con avere efficacia limitata. Il problema è che non eliminano il problema di scarsità a monte e tendono a sussidiare i consumi di energia, e dato che l’offerta di materie prime energetiche è tipicamente poco elastica nel breve periodo, tendono a spingere ancora più in alto i prezzi di mercato. Un secondo svantaggio di queste politiche è che risolvendosi in trasferimenti finanziari a favore delle famiglie costituiscono di fatto una politica fiscale espansiva, che va nella direzione opposta alla politica monetaria che cerca di contrarre la spesa. Dal lato dei vantaggi invece c’è il fatto che se il potere d’acquisto delle famiglie è parzialmente protetto da aiuti governativi, questo può alleviare le richieste di aumenti salariali alle imprese, moderando quindi la rincorsa prezzi salari di cui parlavamo prima. L’effetto netto di questi effetti contrastanti è difficile da valutare in generale, ma una raccomandazione utile è di disegnare gli aiuti alle famiglie in modo da mantenere il più possibile l’incentivo di prezzo a ridurre i consumi energetici (in modo da alleviare la scarsità di partenza), dando trasferimenti fissi e non proporzionali ai consumi correnti, e di limitare lo stimolo fiscale totale, per esempio limitando gli aiuti alle famiglie più bisognose.
Infine, vi sono interventi più ambiziosi in cui lo stato cerca di facilitare il coordinamento tra imprese e lavoratori, riducendo il rischio della spirale prezzi salari. Sono forme di politica dei redditi, che possono funzionare in economie come quella italiana caratterizzate da contratti collettivi che coprono una frazione elevata della popolazione lavorativa. La difficoltà maggiore qui è che mentre i parametri della contrattazione salariale sono visibili, le scelte di prezzo delle imprese sono molto più frammentate tra tanti decisori (grossisti, dettaglianti, piccole imprese) e difficili da monitorare.
Per concludere questa discussione su vari metodi di curare l’inflazione, è interessante andare a rileggere studi scritti a caldo negli anni ’80. Ci sono classici lavori di Bruno e Sachs e di Tarantelli che usano confronti tra paesi con diversi modelli di contrattazione per dimostrare l’importanza di forme di politica dei redditi. Ma ci sono anche studi della Banca d’Italia (di Gressani, Guiso e Visco) che suggeriscono che il taglio dell’indicizzazione (l’intervento più incisivo di politica dei redditi all’epoca) diede forse un contributo quantitativamente limitato alla discesa drammatica dell’inflazione tra 1980 e 1986. La politica probabilmente più efficace fu una politica monetaria strettamente legata alla politica del tasso di cambio. Per guadagnare credibilità e “importare” il basso livello di inflazione che la Germania aveva raggiunto rapidamente, la Banca d’Italia fissò infatti ripetutamente il tasso di cambio tra lira e marco. Riconsiderando quell’esperienza e confrontandola all’oggi, viene da pensare che forse non apprezziamo abbastanza quanto grande sia il beneficio di essere parte dell’area euro, dal punto di vista di uscire velocemente e con danni limitati da una fase di alta inflazione.