(foto Ansa)

Previdenza complementare e quella voglia di intervento dell'Inps

Marco Abatecola

L’ingresso nel sistema attuale di un fondo gestito dall’Istituto nazionale di previdenza non risolverebbe i nodi veri che il settore previdenziale si troverà a dover affrontare nei prossimi anni. Rischia, anzi, di amplificarli

Nonostante la previdenza complementare, ovunque si sia affermata con successo, abbia tra le sue caratteristiche principali quella della separazione dal soggetto pubblico che eroga i trattamenti pensionistici obbligatori, torna di frequente la suggestione di un Inps che svolga anche il ruolo di secondo pilastro, come da ultimo dichiarato dal suo presidente Pasquale Tridico nell’audizione svolta presso la Commissione Affari sociali del Senato. L’idea è quella di un fondo pensione gestito dall’Inps che andrebbe a costituire un’alternativa ai 349 fondi privati oggi operanti. Tra questi vi era anche FondInps, soppresso nel marzo del 2020 dopo vicende non proprio esaltanti.

 

Mettendo allora da parte le distorsioni alle dinamiche di concorrenza che creerebbe l’ingresso del più grande istituto previdenziale pubblico d’Europa, il progetto sembra rispondere a una presunta inefficienza dell’attuale sistema di secondo pilastro. Eppure i dati ufficiali dimostrano come, negli ultimi dieci anni, il rendimento dei fondi pensione negoziali – al netto del 2022, che è stato un anno straordinario, sia sui mercati che sul versante dell’inflazione – è stato in media del 4,1 per cento e la rivalutazione del Tfr del 1,9 per cento. Il problema non sembra quindi essere tanto legato ai rendimenti ma alle risorse che oggi gestiscono i fondi pensione e che ammontano a oltre 213 miliardi di euro.

 

Dati questi numeri, in un paese che non brilla per capacità di attrazione degli investimenti, l’obiettivo dichiarato di una previdenza complementare gestita dal pubblico sarebbe quello di garantire la canalizzazione di queste risorse in Italia, visto che la vera accusa che si fa ai fondi è quella di investire quasi solo all’estero. Eppure, circa il 25 per cento del patrimonio investito dai fondi è allocato in attività domestiche. Anche volendo soffermarci sulle attività detenute in azioni corporate, quelle italiane pesano per circa l’1 per cento del totale investito in titoli di capitale – 2,6 per cento, se si includono i titoli di debito – a fronte di un peso dell’Italia sull’indice Msci World di poco superiore allo 0,60 per cento. Su 62 miliardi di titoli di Stato detenuti, infine, oltre il 47 per cento sono italiani. Si aggiunga a questo una componente investita in private markets in forte crescita.

 

Più che trovare il modo per allocare tutti gli investimenti in Italia, mettendo in discussione decenni di teoria sulla diversificazione del portafoglio, sarebbe quindi più opportuno ragionare su come tutelare un sistema finanziario domestico che viene ostacolato dalla stessa normativa o dalle modalità di costruzione di bandi che, non di rado, penalizzano il rating Italia assegnato a operatori domestici rispetto a quello vantato da soggetti esteri. Per i soli fondi negoziali, la quota gestita dagli operatori esteri è, così, superiore al 68 per cento ed è superiore al 50 per cento nel caso del depositario individuato. Su questo, più che sulla composizione degli investimenti, c’è allora un lavoro da fare già a partire dal decreto ministeriale, previsto nella legge di Bilancio, che dovrà dare indicazioni in materia di investimenti e di obbligo di banca depositaria alle Casse di Previdenza. 
Anche perché le considerazioni sin qui fatte andrebbero estese all’intera esposizione al rischio paese, cui i partecipanti ai fondi pensione sono nel complesso esposti come cittadini. Ed è chiaro che, allargando in tal modo il campo di osservazione, appare difficilmente sostenibile la connotazione anticiclica che da più parti è stata data al fondo pensionistico pubblico immaginato.

 

L’ingresso nel sistema attuale di un fondo gestito dall’Inps, quindi, non risolverebbe i nodi veri che il sistema previdenziale si troverà a dover affrontare nei prossimi anni ma rischia invece di amplificarli, aumentando il debito implicito e aprendo peraltro a quell’idea – che spesso nel nostro dibattito affiora – sull’opportunità di mobilitare risorse private per interventi pubblici in economia dagli esiti quantomeno discutibili.

Di più su questi argomenti: