storie di genio italiano / 7
La storia di Gino Cocchi, che a 70 anni si è inventato una start up di successo
In pensione dal 2010, ex ad di una grande azienda, ha dato vita a una nuova società con personale in larga parte under 35. Che nemmeno il Covid è riuscito a fermare
Questa è una storia dedicata a tutti coloro che dicono che l’Italia è un paese finito, che da questa crisi non se ne esce, che per i nostri giovani c’è speranza solo se vanno all’estero, che non vedo l’ora di andare in pensione eccetera eccetera eccetera. Questa è la storia di Gino Cocchi, nato a Bologna l’11 settembre del 1940, perito industriale. Nel 2010 è andato appunto in pensione, e supponiamo un’ottima pensione, visto che aveva lavorato fino a 70 anni come amministratore delegato di una grande azienda. E però, invece di godersi tanta e tale pensione, ha creato una sua start up, che è diventata un gruppo in cui oggi lavorano cinquecento persone, che diventeranno cinquecentocinquanta l’anno prossimo, e che per tre quarti sono ingegneri, e che per la metà hanno meno di 35 anni, e che vengono da ventinove nazionalità diverse: a proposito di assunzioni di giovani e di integrazione.
E a questo signore che a settant’anni invece di pensare alla pensione ha aperto una start up, ha assunto cinquecento persone di cui la metà under 35 eccetera eccetera eccetera, che cosa è capitato due anni fa? Il Covid, come a tutti. E gli affari che hanno cominciato ad andare meno bene anzi malino. E allora lui che cosa ha fatto? Si è messo a piangere e a imprecare contro la sfortuna contro la Cina contro il ministro Speranza? No: a ottant’anni ha trasformato l’azienda, che adesso guadagna più di prima. E ha più dipendenti di prima. Tutto questo non lo si racconta per incensare il signor Gino Cocchi perito industriale diventato industriale (e perfino professore di Strategia e innovazione all’Università di Ferrara): tutto questo per dire che di Cocchi è per fortuna piena l’Italia. Di imprenditori (ma non solo di imprenditori) che non si arrendono di fronte alle difficoltà e che, più banalmente, riconoscono che ciascuno di noi è in gran parte artefice del proprio destino.
La start up di Gino Cocchi, diventata un gruppo che riunisce tredici aziende che operano in tre settori (macchine automatiche, tecnologia per aeroporti, scienza), fornisce servizi per amministrazione e finanza, budget, risorse umane, information technology. Si chiama Aretè & Cocchi Technology e ha sede a Crespellano, piccolo centro del Bolognese che è stato comune fino al 2014, quando è entrato a far parte del nuovo comune di Valsamoggia. All’ingresso Gino Cocchi ha fatto mettere un totem con i valori cui debbono ispirarsi tutti coloro che lavorano qui dentro: dalla passione alla semplicità, dal saper lavorare in gruppo alla capacità di affrontare sfide nuove. “Sono nato in una terra in cui si mangia pane, salame e meccanica. Sono diventato perito industriale, poi sono entrato nell’aeronautica militare come sottotenente. Mi hanno messo in un centro di ricerca e sperimentazione dove ho potuto coltivare le mie passioni per la tecnica e per la fisica. Erano i primi anni Sessanta. L’epoca dei primi lanci nello spazio”.
I primi anni Sessanta. Quelli della crescita record del pil. Quelli dell’oscar alla lira. Gli ultimi anni spensierati e felici. Nel 1962 Gino Cocchi entra in un’azienda, la Sassi, che produce macchine per sollevamento, insomma ascensori: come quella di Alberto Sordi cretinetti nel Vedovo di Dino Risi. La Torre Velasca. Gli industriali che fanno i soldi e creano lavoro; e quelli che non ci riescono, come il Sordi cretinetti, che sperano di ereditare dalla moglie pur di non restare indietro nella corsa al boom economico.
“Nel 1964 arrivò la prima crisi per quell’Italia e Alberto Sassi, il fondatore, era disperato. Ma ne venimmo fuori. Fu allora che capii che di crisi ce ne sono sempre state e che sempre ce ne saranno, ma che sempre si possono superare. L’azienda non era grossa, ci lavoravano 120 persone. Io avevo deciso di investire nello studio delle lingue: inglese, francese, tedesco e spagnolo. Così potevo girare il mondo: viaggiare, incontrare persone nuove, conoscere culture nuove. Diventai dirigente. Mi trattavano molto bene, ma a un certo punto, nel 1970, dopo otto anni pensai che dovevo provare qualcosa di nuovo. Nel 1969 avevo cominciato a studiare anche il russo. Volevo conoscere cose nuove.
“Mi venne a cercare Poerio Carpigiani, che nel 1944 aveva fondato la Carpigiani, leader nelle macchine per fare il gelato. Mi disse che stava comprando dal tribunale di Bologna un’azienda, la Cattabriga, che era stata la prima al mondo a costruire macchine automatiche per fare il gelato, ma che stava fallendo. Era un’azienda vecchia e quasi morta, con una decina di dipendenti. Carpigiani mi disse: ‘Cerco un giovane che sappia interpretare il futuro. I miei manager ormai pensano di aver già conquistato il mondo, di non avere più nulla da scoprire e da imparare. Le voglio affidare la guida della Cattabriga, affinché la rilanci’. Io non sapevo nulla di macchine per fare il gelato. Ma accettai. Lasciando il certo per l’incerto. Partimmo senza niente, ma facemmo rinascere la Cattabriga. Cominciammo ad assumere giovani. Creammo una rete di vendita con cento agenti. Partecipammo a tutte le fiere possibili. Gli anni beati erano già finiti, i Settanta sono stati anni difficili. Per il clima politico, le tensioni, il terrorismo, la paura. E devo anche dire che le università sfornavano laureati con il voto politico... Dovemmo inventarci noi una formazione. Nel 1990, quando la lasciai dopo vent’anni, la Cattabriga aveva un fatturato di trenta miliardi di lire. E faceva utili”.
Nel 1990 Gino Cocchi entra alla casa madre, la Carpigiani, che nel frattempo ha cambiato proprietà. “Il fondatore, Poerio, era morto nel 1982, e i nuovi proprietari, il gruppo Ali, avevano bisogno di qualcuno che conoscesse l’ambiente. Mi proposero di guidare il gruppo. Ne diventai amministratore delegato”. Al vertice del gruppo Carpigiani Gino Cocchi resta vent’anni. Nel 2010, dopo aver rinnovato l’azienda, portandola in pochi anni dal 17 al 50 per cento della quota di mercato mondiale, va in pensione. Ha settant’anni e sarebbe il momento del buen retiro. Ma che cos’è che spinge un imprenditore a fare impresa? Il desiderio di guadagnare? Fosse solo per i soldi, molti punterebbero sulla finanza, investendo quelli che già hanno, e che invece rischiano. Si fa invece impresa per vedere realizzato qualcosa di proprio, qualcosa di proprio che però è al servizio di tutta la comunità. Questo almeno per chi è animato da buone intenzioni. Avevo settant’anni e volevo fare una cosa mia, solo mia. Nel 1995 avevo già comprato un’azienda, la CTPack, che avevo lasciato in gestione ai manager. Nel 2010 ho creato la Aretè & Cocchi Technology”.
Le cose vanno bene e nel 2019 si raggiungono i 150 milioni di euro di ordini all’anno. Ma poi arriva il Covid. Nel 2020 gli ordini scendono a 100 milioni. “Abbiamo dovuto far ricorso alla cassa integrazione, ma non abbiamo licenziato nessuno. Ci siamo reinventati. Abbiamo cambiato tante cose. Abbiamo sviluppato tantissima nuova tecnologia. Ci siamo affidati all’intelligenza artificiale per fare cose che prima facevamo in presenza. Abbiamo investito sugli occhiali di Google, ad esempio, che ci permettono di controllare una macchina su cui stiamo lavorando dall’altra parte del mondo. E poi abbiamo cercato di eliminare quello che non era indispensabile. In questo mi ha aiutato molto la mia cultura contadina, il saper capire ciò che è essenziale, quel vecchio e dimenticato valore che è la parsimonia. Insomma siamo cambiati. Un cambiamento provocato da una difficoltà che ha trascinato un’innovazione”.
Nel 2021 gli ordini sono risaliti quasi al livello del 2019 (140 milioni) e nel 2022 siamo già a 180 milioni: “Che sarebbero 200 se la guerra non ci avesse fatto perdere venti milioni di commesse con la Russia. Nel 2023 dovremmo superarli, i 200 milioni. Ma la cosa di cui sono orgoglioso è che spendiamo più del dieci per cento del nostro fatturato per la ricerca e lo sviluppo. Voglio che l’azienda sia buona anche fra vent’anni”. E che cosa pensa del pessimismo che regna sovrano oggi in Italia questo signore che ha attraversato i fantastici anni Sessanta, i cupi Settanta, gli illusori Ottanta, i difficili Novanta del crollo della Prima Repubblica, e poi la crisi post Torri Gemelle, la crisi del 2008, la crisi del Covid, la crisi della guerra in Ucraina...
“Penso che adesso stiamo effettivamente vivendo un momento particolare e difficile, per almeno sei fattori che si sono susseguiti rapidamente, uno dopo l’altro. 1) il Covid 2) la mancanza di materie prime 3) la crisi energetica 4) la guerra 5) l’inflazione 6) il rischio di una de-globalizzazione, perché si sta tornando a un mondo separato almeno in due parti, Oriente e Occidente... Quindi ci sono problemi seri. Ma ritengo che sei fai impresa devi saper cogliere, saper capire quali sono le attività che hanno un futuro. E l’Italia è piena di imprenditori che hanno questa capacità. C’è un genio italiano che non ha eguali nel mondo.
“Ma noi siamo un paese curioso: bravissimi nel farci del male da soli. Nell’autodiffamarci. Ora, è vero che il paese è per certi versi disorganizzato, è vero che abbiamo una burocrazia fra le peggiori: ma siamo molto meglio dell’immagine che noi stessi ci vogliamo dare. Anche la scuola è meglio di come la dipingiamo. Anche il Sud è meglio. Guardi, al Sud abbiamo centri di ricerca di grandissimo valore. Sono nato quando era appena scoppiata la Seconda guerra mondiale, sono cresciuto nel dopoguerra, e sa una cosa? Se penso a quello che ho potuto fare ringrazio la Provvidenza, ma ringrazio anche il fatto di essere nato e cresciuto in tempi difficili. La mia terra, l’Emilia, nel dopoguerra non aveva niente. Eravamo poverissimi. E avevamo conflitti ideologici terribili: noi pensiamo sempre ai film con Don Camillo e Peppone, ma la realtà fu molto più truce. E però c’erano persone che avevano una speranza. E tanta voglia di fare. Oggi l’Emilia-Romagna è ai vertici italiani per pil ed export perché allora c’erano persone che credevano nel futuro. Il grande errore dell’Italia di oggi è proprio questo: far credere che non ci può essere un futuro”.