Foto di Stephanie Lecocq, via Ansa 

prospettive future

Come affrontare il tema della decarbonizzazione nel mondo. Qual è l'obiettivo dell'Europa?

Chicco Testa

L’Ue non è la ztl del mondo e non c'è possibilità che usando solo fonti energetiche considerate più sexy di altre, come le rinnovabili, l'Unione possa vantare una leadership tecnologica. Ciò che si intravede è solo una politica industriale confusa e velleitaria

Il tema della decarbonizzazione può essere affrontato da tre punti di vista. Desiderabilità, fattibilità, convenienza. 

 

Il primo punto è il più semplice. Tutti desideriamo un mondo senza emissioni nocive, salubre e ospitale. Ma come tutti sappiamo, i desideri senza la corretta individuazione dei mezzi e delle strategie per realizzarli rimangono per l’appunto desideri. Il secondo punto, la fattibilità, è invece molto più complicato. Siamo abituati a una discussione prevalentemente europea attorno ai vari obbiettivi fissati dall’Unione. Ma l’Europa rappresenta l’8-9 per cento del totale delle emissioni mondiali. In continua diminuzione per ragioni demografiche e di distribuzione del pil. Come è noto, la riduzione  delle emissioni climalteranti ha senso solo se avviene su scala globale. Non si tratta di un “inquinante” locale il cui contenimento comporta benefici locali immediati. La CO2 staziona e si accumula in atmosfera e si distribuisce uniformemente attorno al globo. Quindi, o si riduce globalmente o eventuali riduzioni locali, anche di grande dimensione, ma compensate da aumenti in altre parti del mondo, hanno effetto nullo o un risultato complessivo persino negativo. Dobbiamo quindi allargare il nostro sguardo, consapevoli che il resto del mondo e i quattro quinti dell’umanità che nel 2030 vivranno fuori dall’area Ocse sono per ragioni economiche e demografiche destinati a “fare la differenza”. 

 

Aggiungiamo un secondo punto decisivo. Per le caratteristiche sopra descritte, il carattere globale del problema, un approccio razionale avrebbe dovuto porsi una domanda. Dove e come dovrei investire per ridurre le emissioni il più rapidamente possibile e al minor costo possibile? Domanda che non è mai stata posta in modo sistematico. Probabilmente avremmo scoperto che gli investimenti maggiori avrebbero dovuti essere fatti fuori dall’area Ocse, in Asia, Africa, Sudamerica dove a causa della bassa efficienza energetica e dell’arretratezza del sistema industriale e di quello dei trasporti il costo marginale dell’efficientamento e quindi quello della riduzione di una tonnellata di CO2 è assai più basso che nei paesi post industriali. Ma ovviamente nessun governo può permettersi di destinare cifre ingenti per investimenti di questo tipo fuori dai propri confini. Il perseguimento quindi della riduzione in Europa come negli Stati Uniti, con il recente piano Biden, si è trasformato in uno strumento di politica industriale. Ma questa è un’altra storia, certamente meno efficiente dal punto di vista dell’allocazione di risorse scarse per definizione. 

 

E infatti come sono andate le cose fino a oggi per quanto riguarda l’andamento delle emissioni globali? Qualunque sia il periodo di partenza della misurazione il consuntivo ci dice che, a parte anni in cui – a causa per esempio del Covid e il  conseguente rallentamento dell’attività economica con pil negativi in quasi tutto il mondo – si sono verificate parziali riduzioni, la linea di tendenza è di un aumento costante e apparentemente inarrestabile. Il 2022 ha registrato il picco assoluto delle emissioni, superiori agli anni pre Covid e le previsioni per il 2023 confermano la tendenza. Naturalmente dipenderà almeno in parte da quanto sarà robusta la crescita economica mondiale.

 

Sul lungo periodo, il bilancio è addirittura impressionante. Dal 1990 a oggi, in soli 30 anni, è stata immessa in atmosfera una quantità di CO2 pari a quelle emessa in tutti i secoli precedenti. La continua crescita delle emissioni comporta un ulteriore problema. Più si avvicina il 2050, anno in cui le emissioni dovrebbero ridursi a zero, più ripida, e quindi difficile per non dire impossibile, diventa la curva della discesa richiesta. 
Perché questo avviene a dispetto di tutti gli accordi e gli impegni internazionali? La causa principale sta nella enorme disparità rispetto ai livelli di benessere economico e soprattutto nei livelli di consumo energetico, che ne sono evidentemente una causa, di una grande parte del mondo se paragonata all’Europa, agli Stati Uniti e più in generale all’area Ocse. Se non si tiene conto di questo dato e non la si affronta, la situazione non è destinata a migliorare. 

 

I consumi energetici pro capite di Asia – con la parziale eccezione della Cina – Africa e buona parte del Sudamerica, sono una frazione dei comuni energetici Ocse. Espresso il consumo totale di energia, non solo quindi quella elettrica, in kWh pro capite passiamo dai 75 mila degli Stati Uniti ai nemmeno quattromila dell’Africa. In mezzo, quelli del Sudamerica ( 15 mila) meno della metà di quelli europei (37 mila) e un po’ meno di quelli dell’Asia (18.800) per altro gonfiati dai 30 mila della Cina. 

 

Il punto principale è quindi il gigantesco fabbisogno energetico inevaso dei quattro quinti dell’umanità, compreso il poco meno di un miliardo che è completamente privo di elettricità. 

 

Questo fabbisogno dovrà essere soddisfatto, è la premessa della crescita economica di vaste aree del mondo ancora con pil pro capite assolutamente insufficiente a garantire un relativo benessere. La Cina ne è un esempio lampante. La sua crescita economica negli ultimi 20 anni si è accompagnata a un altrettanto impressionante aumento dei consumi energetici. Che sono dal 2000 a oggi praticamente quadruplicati, da poco più di 10 mila TWh totali annui a ben più di 40 mila. È il caso di sottolineare che se tutta l’area di quei paesi avesse conosciuto lo sviluppo economico della Cina, il totale delle emissioni sarebbe enormemente superiore all’attuale. Ma dobbiamo pensare che il contenimento delle emissioni debba coincidere con la povertà energetica di larga parte del mondo?

 

L’energia di cui necessitano questi paesi, l’India per esempio avviata a diventare anch’essa una fabbrica del mondo e popolata da immense megalopoli, è energia continua e a basso costo. La fonte che risponde meglio a queste esigenze, anche per ragioni di costo e di disponibilità è il carbone, la cui percentuale nel soddisfacimento del fabbisogno energetico mondiale presenta una leggera decrescita, ma non in valori assoluti dal momento che i consumi energetici totali sono in continua crescita. Il 2022 ha fatto segnare il picco mondiale dei consumi di carbone con ben 8 miliardi di tonnellate consumate. Oppure il nucleare, che ha in questa parte del mondo costi assolutamente competitivi. Le rinnovabili da sole certo non bastano, per la loro intermittenza ma anche per lo stato delle reti elettriche che esigerebbero migliaia di miliardi di investimenti per garantire una certa affidabilità.

 

La fattibilità quindi di un azzeramento delle emissioni al 2050 appare oggi francamente impossibile.

 

D’altra parte se si prendono in considerazione gli scenari disegnati dall’Aie in risposta alla domanda “come fare per azzerare le emissioni al 2050” è purtroppo facile constatare che molte di quelle misure appartengono più al mondo dei desideri che a quello della possibilità. Basta prendere qualche numero dal rapporto Aie. La penetrazione elettrica nel mondo dovrebbe passare dall’attuale 20 per cento al 50. I consumi energetici dovrebbero scendere del 10 per cento mentre le dimensioni dell’economia mondiale raddoppiano. Le emissioni pro capite delle economie sviluppate dovrebbero passare da 8 tonnellate circa a 0,5. Il carbone dovrebbe ridurre i suoi consumi del 90 per cento, mentre in realtà  aumentano e il consumo di litio aumentare di 30 volte. Dal 2035 si dovrebbe smettere di produrre auto a combustione in tutto il mondo. Anche in paesi dove lo stato delle reti elettriche esigerebbe migliaia di miliardi di investimenti per potere reggere la domanda di elettricità, visto che i punti di ricarica dovrebbero passare dai quasi  2 milioni attuali ai 40 milioni nel 2030. In 7 anni. 

 

La stessa Aie, poi, precisa che mentre alcune tecnologie necessarie a questa transizione sono già disponibili (rinnovabili per esempio), altre, pure necessarie (per esempio Ccs) dovranno essere sviluppate nel prossimo futuro. Insomma, un salto carpiato doppio con triplo avvitamento prima a destra e poi a sinistra. Sperando che la piscina sia piena.

 

Rimane a questo punto una questione. La convenienza. Ha senso lo sforzo che l’Unione europea sta compiendo per azzerare le sue emissioni nel 2050? Intanto, questo sforzo è destinato ad avere successo? La recente crisi energetica ha reso evidenti il grado di dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili e alcune scelte sciagurate compiute, nel recente passato, quali la chiusura degli impianti nucleari tedeschi. Inoltre visto dal punto di vista del nostro paese è evidente già ora, fuor di propaganda, l’impossibilità di raggiungere alcuni degli obiettivi stabiliti dalla Ue. Non mi dilungo. 

 

Rimane da capire se lo sforzo europeo, insignificante dal punto di vista climatico, abbia senso almeno dal punto di vista sociale economico, occupazionale e tecnologico. Le notizie non sono incoraggianti. È difficile reperire studi che valutino con sufficiente approfondimento questi fattori. La spinta volontaristica prevale sull’analisi fattuale. 

 

Ma alcuni fatti sono chiari. Le misure fino a ora intraprese hanno comportato costi enormi, si pensi agli oltre mille  miliardi fra  incentivi  dati al settore delle rinnovabili e i numerosi bonus e contributi in conto capitale erogati anche in Italia, con effetti fiscali regressivi per i ceti più deboli e largo ricorso al debito pubblico. Altri sono in arrivo. La border tax, vale a dire la tassazione alla frontiera dei prodotti importati ad alto contenuto di carbonio, che dovrebbe entrare in funzione nel giro di qualche anno, è di fatto un dazio sulle importazioni che si tradurrà in un aumento dei costi di molti beni, anche qui con effetti inflattivi e regressivi.  

 

Certo, questa massa di denaro produce anche occupazione, come è stato per il bonus 110 in Italia. Ma nessuno studio comparativo spiega se questa è l’allocazione corretta delle risorse. L’effetto complessivo del bonus 110 sulla riduzione delle emissioni climalterati è stato assolutamente trascurabile e il costo per tonnellate di CO2 evitata completamente irragionevole. 

 

Dal punto di vista tecnologico è poi evidente la completa dipendenza dell’Europa nei settori decisivi. Solare, eolico, batterie, minerali necessari, terre rare. E, a parte la  Francia, anche la perdita delle leadership nel nucleare a favore per esempio della Corea. 

 

Inoltre, appare privo di senso l’abbandono di fatto di uno dei principi cardine, vale a dire quello della neutralità tecnologica. Non importa di che colore è il gatto purché acchiappi il topo. A favore esclusivo di alcune tecnologie. La guerra, per esempio, che larghe parti dello schieramento politico europeo e della stessa Commissione hanno fatto all’energia nucleare cercando di penalizzare una fonte chiaramente low carbon, basta confrontare le emissioni per unità di energia prodotta in Francia piuttosto che in Germania, non ha dal punto di vista dell’obbiettivo di riduzione della CO2 alcuna giustificazione, se non quella di un inutile furore ideologico, rilevato persino da Greta Thunberg

 

È anche il caso dell’attenzione esclusiva dedicata al veicolo elettrico anziché alla riduzione delle emissioni attraverso l’uso di altri combustibili (biocarburanti, carburanti sintetici, idrogeno) con il risultato di costringere tutta Europa a giganteschi investimenti nelle infrastrutture di ricarica e perdere l’eccellenza tecnologica dell’industria automobilistica europea nei motori a scoppio. 

 

Ma quale è l’obiettivo europeo? La riduzione delle emissioni o la promozione di tecnologie considerate più sexy di altre? Non credo che tutto questo possa portare a una qualche forma di leadership tecnologica europea. Non ce ne sono i segni. Piuttosto, a un enorme impiego di risorse senza risultati sostanziali e la promozione di una politica industriale alquanto confusa, ondivaga  e velleitaria. E a pagare saranno sempre i soliti, con buona pace di chi vuole fare dell’Europa la ztl del mondo. 

 

Dobbiamo quindi rassegnarci? No, ma occorre decisamente cambiare strada. L’unica leva che può fare la differenza è l’emergere di veri e propri salti in tecnologie low carbon disponibili per tutti e a basso costo. Nucleare, compresa la fusione, batterie, carbon sequestration, combustibili sintetici e bio a impatto zero e quant’altro la fantasia umana può scovare. Ci vuole tempo? Certo. Ma meglio impiegarlo bene che constatare anno dopo anno il totale fallimento delle solite ricette.