Ottimisti ma non troppo
Cosa c'è di vero nel nuovo "miracolo italiano"
Sicurezza, occupazione, imprese: numeri positivi. Tutto alla grande? No, ma per fare meglio bisogna prima sfatare i miti del catastrofismo. Come orientarsi in una realtà dove si incrociano troppe narrazioni diverse
Rimbalzo, risveglio, eccezione, bolla, fiammata, fuoco fatuo, quante parole per esprimete l’inesprimibile, quante maschere per una realtà difficile da accettare da chi ha fabbricato il complotto, il declino, la catastrofe e si trova a spiegare come mai l’economia nazionale corre più di quella mondiale. La mascherata continuerà ben oltre il carnevale (basta accendere la radio ogni mattina) e ha fruttato il suo bel vantaggio creando un velo spesso di luoghi comuni e portando i cavalieri del nulla sugli scranni del Palazzo. Difficile capire quale Italia emerge dalle elezioni regionali: è vero che Lombardia e Lazio sfornano un terzo del prodotto lordo italiano, tuttavia è andato alle urne poco più di un terzo degli aventi diritto al voto, quindi se il risultato politico è chiaro, una lettura sociologica non è possibile. Si potrebbe chiedere invece quale idea dell’Italia ha pesato sul giudizio degli elettori. Certo, hanno contato le immagini rimbalzate come palline di mercurio dai mass media, intrise di luoghi comuni e spesso di pregiudizi sull’Italia e sugli italiani non fabbricati dai barbari alle porte, ma da noi stessi. “In politica viviamo su un terreno vulcanico. Dobbiamo essere preparati a convulsioni ed eruzioni improvvise – ha scritto il filosofo Ernst Cassirer – in tutti i momenti critici della vita sociale dell’uomo, le forze razionali non sono più sicure di se stesse. Ritorna così l’èra del mito”. L’età della tecnica ha sviluppato una nuova tecnica del mito che l’età dei social media ha perfezionato, oggi “la parola magica ha preso il sopravvento” e la “mitocrazia” conquista il potere.
Chi manipola e riplasma il circo mediatico-politico per i propri interessi è esecrabile, ma comprensibile; che dire invece di chi si vergogna di se stesso e dei propri successi per rendere omaggio a totem di tribù in via di estinzione? La destra ha cavalcato l’immagine di una Italia in braghe di tela, la sinistra s’è cosparsa il capo di cenere e le ha dato ragione. E così si sente dire che viviamo nell’insicurezza quotidiana, il lavoro non c’è, siamo tutti più poveri, non riusciamo a far crescere l’economia, i treni e gli aerei arrivano in ritardo, i turisti sono scappati e non tornano. Il mito dei ceti medi proletarizzati che tanto impatto ebbe cent’anni fa sull’immaginario collettivo e le scelte degli elettori, torna per irrorarsi di rinnovati luoghi comuni e maritarsi con il nuovo mito della Ztl. La politica è a testa in giù con i ricchi che votano a sinistra, i poveri a destra; poi adesso si scopre che a Milano il Pd ha vinto in periferia e a Roma ha perso nel centro storico.
Lasciamo stare per un momento l’economia, tanto pochi la conoscono e nessuno le crede. A ogni appuntamento elettorale riemerge dal fondo oscuro della società la violenza privata. Come rispondere all’assordante grido che arriva dai talk show televisivi? Ogni sera le tv (Mediaset in testa ma la Rai e La7 non sono da meno) e ogni mattina i quotidiani fanno venire i brividi. Invenzioni? Certo che no. Manipolazioni? Facciamo parlare i tutori dell’ordine e della sicurezza. Prendiamo la violenza privata e in particolare quella domestica. Secondo i dati della polizia criminale, nel 2022 gli omicidi rispetto all’anno precedente sono aumentati del 3 per cento, stessa quota per il numero delle vittime di genere femminile: su 309 persone uccise, 122 sono donne. In calo i delitti commessi in ambito familiare o affettivo: da 146 scendono a 137 (-6 per cento). Considerando solo gli omicidi commessi dal partner o ex partner, rispetto allo stesso periodo del 2021, scendono da 77 a 65 (-16 per cento), le vittime donne da 69 a 59 (-14 per cento). Prendiamo il tasso di incidenza degli omicidi rispetto alla popolazione nelle due maggiori città italiane considerate le più violente: a fronte dei 26 omicidi avvenuti a Roma (su una popolazione di oltre 4, 2 milioni di abitanti) e dei 19 a Milano (su oltre 3,2 milioni di cittadini), Bruxelles ha rilevato 179 omicidi (su una popolazione di 1,2 milioni), Parigi ne registra 100 (su 2,1 milioni di abitanti). Nei primi sei mesi del 2022 i femminicidi sono diminuiti del 26,1 per cento. L’Italia è quintultima tra i 27 paesi della Ue, nettamente superata da Francia e Germania (in testa a questa terribile classifica c’è la Lituania). Sono aumentati, invece, i delitti sessuali. Ed è questo, tra tutti i dati pubblicati, a fare titolo anche per l’Ansa, l’agenzia delle notizie ufficiali. Come mai, è solo il lato oscuro a fare audience? Oppure si usa la paura come instrumentum regni? Non cadiamo anche noi in complottismi, dopo tutto non viviamo in un regime putiniano, tuttavia è il momento di pensare tutto il pensabile, troppo ampia, durevole, radicata è la disinformazia. E allora torna in ballo l’economia, il più fertile terreno di pascolo.
C’è chi si vergogna dei propri successi per omaggiare totem di altre tribù. La sinistra dà ragione alla destra sull’Italia in braghe di tela
Elena Ethel Schlein non legge i bollettini Istat; come darle torto, così noiosi con tutte quelle cifre. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che il governo Draghi ha creato oltre un milione di posti di lavoro, basandoci sulle rilevazioni ufficiali. Troppo poco. Perché in realtà, sono un milione 270 mila durante i governi Renzi-Gentiloni e un milione e 24 mila con Draghi; oltre la metà con contratti a tempo indeterminato. Frutto della crescita nell’ultimo biennio e del Jobs act nel periodo precedente. Sì, il Jobs act, proprio quello che Elly Schlein vuole abolire e che Stefano Bonaccini ha rinnegato. Lui li legge i bollettini Istat, ma li ignora, vale quel che diceva Alessandro Manzoni sul buon senso che si nasconde per paura del senso comune. Il futuro segretario del Pd (se i sondaggi dicono il vero) si vergogna forse di quel che dovrebbe sbandierare come un successo davanti a Maurizio Landini e alla stessa Giorgia Meloni la quale bollava il Jobs act come il marchio di una sinistra venduta ai “poteri forti”, facendo partire lancia in resta la Ugl erede della Cisnal, vicina a Fratelli d’Italia, ma che ha dato a Matteo Salvini un Claudio Durigon attuale sottosegretario di stato.
Un milione e 270 mila i posti di lavoro creati durante i governi Renzi-Gentiloni e un milione e 24 mila con Draghi. Frutto anche del Jobs act
I partiti politici sbraitano contro il lavoro che non c’è e si nascondono quando c’è, anzi negano l’evidenza. Ma lo spettacolo più disarmante viene dal Pd il quale quando era al governo ha favorito la nascita di due milioni e mezzo di occupati in più e adesso se ne scusa perché ha paura di ammettere che il buon risultato si è avuto solo superando antichi tabù. Guai al revisionismo, niente nemici a sinistra anche quando certi amici ti portano alla sconfitta sicura. Il lavoro manca? Di qui al 2005 nel privato e nel pubblico ci sarà bisogno di quasi 4 milioni di lavoratori in più, 2,6 per il turnover e il resto per far fronte all’aumento della produzione. Nel settore privato si prevede che la richiesta sia compresa tra 1,7 e 2,1 milioni di dipendenti e tra 1 e 1,1 milioni di lavoratori autonomi. La pubblica amministrazione avrà bisogno di oltre 740 mila nuovi occupati, più di 690 mila dei quali per rimpiazzare chi va in pensione. Hai voglia a raccontare che l’Italia negli ultimi due anni è cresciuta di oltre l’11 per cento, più dell’economia mondiale nel suo insieme e molto più che i paesi avanzati a cominciare dalla Francia e dalla Germania. Al massimo questo dato di fatto può suscitare un sarcastico “ma davvero?”. Nei programmi teleradiofonici che raccolgono gli umori della “gggente”, se ti azzardi a dire che secondo l’Istat e la Banca d’Italia il paese non si è impoverito, nonostante la pandemia e l’inflazione, arrivano subito le voci inviperite di chi invita ad andare al mercato sotto casa per vedere che stanno tutti morendo di fame. Abbiamo scritto sul Foglio che il ceto medio non è stato spazzato né dalla crisi, né dalla pandemia e tanto meno da Draghi. I “mitologi” sostengono il contrario e gli elettori scelgono loro e il timore della “proletarizzazione” arriva a Palazzo Chigi. Del resto chi ha contrastato le parole magiche del populismo? Certo non la sinistra, la quale per lo più ha tentato di rilanciare le stesse visioni populiste, con minor presa di Beppe Grillo.
Accettiamo pure l’accusa di acribia, vogliamo essere noiosi e, sfidando le schiere bipartisan dei No Istat, ricordiamo il più recente rapporto dell’Istituto di statistica elaborato insieme alla Banca d’Italia. Alla fine del 2021 la ricchezza netta delle famiglie italiane, misurata come somma di attività reali (abitazioni, terreni) e finanziarie (depositi, titoli, azioni) meno le passività finanziarie (mutui, debiti), era pari a 10.422 miliardi di euro, ossia 176 mila euro pro capite e 8,6 volte il prodotto lordo annuo. C’è stato un incremento di oltre 300 miliardi di euro rispetto all’anno precedente (+3 per cento), proseguendo il trend del 2019 non interrotto dalla pandemia. Le passività finanziarie sono aumentate del 3,7 per cento, superando a fine 2021 la soglia dei mille miliardi. Le attività reali, pari a 6.186 miliardi di euro, sono cresciute dello 0,3 per cento a prezzi correnti (+16 miliardi), soprattutto per effetto delle abitazioni (+0,4 per cento; +23 miliardi), in crescita per la prima volta dal 2012. I depositi in banca (sui quali non si riscuotono interessi) si sono rimpinguati di 70 miliardi di euro dopo i 104 miliardi del 2020.
E il piagnisteo sull’Italia dove non si può fare impresa? Il lamento in questo caso viene più da destra che da sinistra. Facciamoci aiutare da Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma che ha fatto un po’ di conti pubblicati dal sito InPiù.net. Nel 2022 che per l’industria colpita dallo choc energetico avrebbe dovuto essere l’annus horribilis, la produzione manifatturiera è aumentata dello 0,8 per cento (dopo un rimbalzo del 12,8 nel 2021). Il quasi raddoppio del prezzo del gas ha inciso in misura contenuta, con una marginale contrazione dell’attività nella seconda parte dell’anno. Germania e Francia hanno sofferto di più: a fine 2022 avevano livelli produttivi ancora inferiori al periodo pre-Covid”. La più robusta dinamica italiana è confermata dai dati dell’export di beni, in crescita più che nelle altre due economie e più della domanda mondiale. Dunque non è vera la moria di aziende della quale si è detto e scritto? “Tra il 2007 e il 2020, la nostra manifattura ha perso circa 112.000 imprese, quasi un quarto della sua iniziale consistenza – spiega De Nardis – È stato un processo continuo e doloroso di erosione della base produttiva, non riscontrabile nelle altre economie. In Francia la diminuzione è stata del 7 per cento (-16.000 imprese), in Germania si è avuta addirittura un’espansione (20.000 in più). Tale evoluzione probabilmente non si è esaurita: l’Italia continua ad avere più imprese manifatturiere della Germania”. La selezione dei produttori si è accompagnata all’innalzamento della produttività particolarmente rilevante nelle imprese esportatrici. Nelle altre economie non si assiste a un simile fenomeno: in Francia il peso degli esportatori è stabile, in Germania si è ridotto. E l’occupazione? Quel che si è perduto in alcuni settori è stato recuperato in altri? Non del tutto, nonostante i progressi fatti, le cose debbono ancora migliorare, i risultati dell’ultimo biennio mostrano che è possibile colmare il divario se la crescita continua.
Il piagnisteo sull’Italia dove non si può fare impresa? Nel 2022 dello choc energetico la produzione manifatturiera è aumentata dello 0,8
Tutto vero e verificabile, ma chi ci crede? La statistica è sempre quella del pollo di Trilussa. “Cifre, dati, robe da noiosi professori. Guardatevi intorno, non vedete che tutto va a pezzi?”. Invece, abitiamo nel migliore dei paesi possibili? Stiamo vivendo un miracolo italiano che nessuno si aspettava e del quale non ci rendiamo conto per cecità o per pregiudizio? Secondo alcuni (ad esempio Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera) non di miracolo si deve parlare, ma dell’impatto positivo di una corretta politica economica, quella realizzata dal governo Draghi. Altri come Marco Fortis mettono l’accento sulla vitalità notevole del tessuto produttivo, rafforzato da riforme che hanno funzionato, come il Jobs act. Ma molti sono ancora i miti, o più modestamente, i pregiudizi da sfatare. I treni arrivano in orario, l’alta velocità funziona benissimo, è stata un successo. Il Leonardo da Vinci di Fiumicino è da anni classificato come migliore aeroporto d’Europa. Il ponte di Genova è stato costruito a tempo di record. Il gap digitale persiste, ma solo nelle aree extra urbane dove vive la minoranza della popolazione. Durante la pandemia la rete digitale e quella elettrica hanno funzionato senza interruzioni. Quanto ai turisti sono tornati in massa come prima più di prima, anzi non si sa dove metterli perché non tutti gli alberghi e i ristoranti sono stati così veloci da recuperare in tempo. Le linee aeree date per morte e sepolte con il Covid-19 non sanno come far fronte alla voglia di viaggiare che ripreso gli italiani e non solo loro: l’estate scorsa l’intero sistema internazionale è collassato per eccesso di domanda rispetto all’offerta, le festività di Natale e fine anno hanno registrato overbooking in cielo, in terra e in mare. Allora tutto va bene madama Italia? Nient’affatto, proviamo però a cambiare punto d’osservazione, forse scopriamo che ad andar male non è quel che ci raccontano.
L’alta velocità è stata un successo, Fiumicino è da anni classificato come migliore aeroporto d’Europa, il ponte di Genova ricostruito a tempo record
Si ripresenta così la dialettica tra mito e realtà, con il mito pronto a prendere il sopravvento. “Distruggere i miti politici è impresa che supera le possibilità della filosofia. In un certo senso il mito è invulnerabile. Esso è impervio alle argomentazioni razionali, non può essere confutato con sillogismi. Ma la filosofia può farci comprendere l’avversario. Per combattere un nemico lo si deve conoscere”. Lo scriveva Cassirer concludendo il suo ultimo saggio pubblicato postumo sotto il titolo “Il mito dello stato”. Era il 1945, viveva a New York dove era stato accolto dopo aver lasciato la Germania nel 1933 prima per Oxford poi per la Svezia. Il mito politico che aveva analizzato era il mito del capo, era il mito di Adolf Hitler. Morì prima di vederne la sconfitta, ma la sua analisi ha aperto una strada alla conoscenza e alla politica nel dopoguerra. Fino ad oggi. Di miti spiccioli, mondani, da talk show, si nutrono i paesi democratici, di miti apocalittici s’ammantano gli autocrati. Chi non vuol restarne vittima non può che de-mitizzare con puntiglio e sincerità, convinto che i “mitocrati” nell’epoca delle masse fanno leva sul fondo oscuro dell’uomo che val sempre la pena rischiarare.