La strada stretta dell'energia
È ora di smontare la retorica Nimby (anche) sul biogas
Mentre Giorgia Meloni si impegna a rafforzare la strategia italiana di diversificazione delle fonti, a Terlizzi è sempre bloccato un impianto alimentato con scarti delle olive. “La produzione agricola può contribuire all’indipendenza energetica”, ci dice Scordamaglia (Filiera Italia)
Sull’energia i leader nazionali promettono, a livello locale i loro uomini li smentiscono. E così mentre Giorgia Meloni si impegna a rafforzare la strategia italiana di diversificazione geografica e materiale delle fonti di energia, a Piombino (sindaco di Fratelli d’Italia) il rigassificatore è ancora preda di incertezze e ricorsi. E mentre Enrico Letta, segretario uscente del Pd, in campagna elettorale annunciava un grande piano nazionale di risparmio energetico, incentivando gli investimenti delle imprese in energie rinnovabili, a Terlizzi (Bari, sindaco Pd) è sempre bloccato un impianto di biogas alimentato con scarti appunto delle olive, capace di produrre circa 3 mila tonnellate di Gnl, la stessa famiglia di quello che arriva in rete da Stati Uniti e Qatar via nave. Motivo? L’impianto progettato da Sorgenia “è troppo vicino alla vecchia via Appia Traiana, non dimensionato per una filiera corta e per i fabbisogni locali, pensato in un’area non vocata”. È la solita storia, insomma: si faccia pure l’impianto a biogas, ma non in casa nostra. E pazienza se non si potranno trasformare i residui delle olive, come chiedono gli agricoltori, e se i rilievi sono definiti ingiustificati da Sorgenia. I resti delle olive saranno versati direttamente sul terreno, il partito Nimby, che ha fatto riverniciare la nave rigassificatrice di Piombino, vince anche in Puglia.
Luigi Scordamaglia, a capo di Filiera Italia, l’alleanza tra agricoltura made in Italy e industria, è sconsolato. “Noi in Italia abbiano una serie di problemi a cui la produzione agricola potrebbe dare una risposta, con i biocarburanti in particolare. Il primo è che con la crisi del gas paghiamo lo scotto di non essere indipendenti e legati alle forniture dall’estero. Il secondo è che ci siamo impegnati a ridurre la C02. Il terzo è che vogliamo un processo agroalimentare sostenibile e integrato. Il biogas e il biometano sono una soluzione per tutti e tre. Perché residui di lavorazione agricola e zootecnica e reflui possono finire in un impianto che, senza consumare energia, li trasforma in gas per uso termico e di mobilità. Noi abbiamo un obiettivo a portata di mano: raggiungere i 6,5 miliardi di metri cubi all’anno di biometano di origine agricola. Che rappresenta il 10 per cento circa del consumo totale italiano di gas. Non è poco, no?”. Certo che no, e allora cosa impedisce di raggiungerlo? “Intanto l’ignoranza e i pregiudizi, che generano opposizione preconcetta della cittadinanza locale agli impianti”. A Terlizzi dicono che gli scarti della lavorazione delle olive possono essere usati come concime direttamente, senza passare per l’impianto di biodigestione e sul fronte del no ci sono gli ambientalisti locali. “Che sciocchezza, nemmeno per sogno. È come dire che si possono buttare i rifiuti cittadini nei parchi, per vedere crescere l’erba. L’impianto di biodigestione trasforma in gas lo scarto alimentare e quello che rimane è il biodigestato, urea, ricchissima di azoto, il concime più formidabile. Noi importiamo fertilizzanti dalla Russia al costo di 1.100 euro a tonnellata, il doppio di un anno fa. Quello dell’impianto di biogas è gratis”.
E allora la gente non lo sa? “Non lo sa. E non tutti capiscono che i rifiuti alimentari sono vera economia circolare e costituiscono una ricchezza. Lo sa che gli impianti che possono trasformare il biogas in biometano da trazione possono venderlo al consumo al dettaglio alla metà del prezzo di quello della rete? Così il pieno costa la metà, capisce? Ci sono resistenze che crollano quando sono spiegate queste cose”. E il cattivo odore dei rifiuti alimentari e zootecnici dall’impianto? “Il problema non esiste. Sono costruiti a pressione negativa. Niente odore, la tecnologia italiana è la più avanzata al mondo. Sinceramente non capisco queste resistenze alla nostra energia, quando poi andiamo a consegnare il monopolio dell’alimentazione elettrica alla Cina, un paese autoritario”. Ok, l’ignoranza. Che altro? “Le sovrintendenze spesso ci si mettono di traverso, è successo anche a Terlizzi, E la burocrazia, altro colpevole. Perché il biometano può finire in rete e nelle case. Se non accade ancora è perché c’è chi lo blocca o lo rallenta”.
Pietro Gattoni guida il Consorzio biogas italiano, 800 aziende produttrici, più di 200 società industriali fornitrici di impianti e una miriade di soci sostenitori (ci sono anche Snam, Confagricoltura, Basf, Edison, Engie, Iveco). Dice: “La produzione italiana è affidata soprattutto a medie e piccole aziende, il che permette di avere tante forti filiere locali. Ma si può fare un salto di qualità, se qualcuno si muove”. Dov’è l’ingorgo, allora? “Il gas di origine rinnovabile può gradualmente sostituire quello fossile nei consumi. Ma servono interventi. In Italia il metano circola sulle arterie di Snam e sulle vene della distribuzione (Italgas e altri). Dobbiamo inserire il nostro, dopo un processo di raffinazione, nella rete. E spetta all’Arera, l’Autorità di regolazione per l’energia e le reti, intervenire”. E non lo fa? “Noi abbiamo chiesto un tavolo al Mite per definire una proposta che possa essere accettata da produttori e reti e che Arera possa applicare. Lo abbiamo chiesto da più di sei mesi, nessuno ci ha chiamati. Ora basta, bisogna accelerare”.
I soliti tempi della burocrazia, insomma. “E non solo quella italiana. È inconcepibile aspettare mesi per vedere la direzione Competizione di Bruxelles validare lo schema di decreto italiano sul biogas. Sono lungaggini non più coerenti con le urgenze che abbiamo, non possiamo aspettare tanto tempo per sentirci dire che i provvedimenti italiani vanno bene e non violano la concorrenza. E non è finita qui”. Cosa c’è ancora che non funziona? “Sempre i ritardi, anche nelle norme attuative, che fanno rendere cantierabili gli impianti troppo tardi. È un controsenso. Con le incognite del caro-bollette che abbiamo in Italia qualcuno impedisce di produrre gas a un prezzo più basso di quello che importiamo. Dal 2008 al 2012 abbiamo fatto 300 impianti all’anno, ora siamo scesi a 80 autorizzazioni. Manca una politica energetica, e gli imprenditori senza certezze non investono. E si spengono le luci”. Una bella immagine. “Non è un’immagine ma la realtà che purtroppo si avvicina. Per risparmiare i comuni pensano di ridurre l’illuminazione pubblica. Beh, i duemila impianti italiani avrebbero la capacità di produrre circa 8 Terawattora, con i quali si potrebbe fornire energia elettrica all’illuminazione pubblica di tutta Italia durante la notte. Invece, sogni d’oro al buio”.