Come cambia il lavoro
Perché la settimana corta può essere una rivoluzione per pochi
La proposta di Landini a cui anche Urso ha aperto "non deve diventare uno slogan", ci dice l'ex presidente dell'Anpal Maurizio Del Conte. E avvisa: "Non avrà effetti sull'incremento dell'occupazione"
John Maynard Keynes, nel giugno del 1930, tenne una conferenza a Madrid passata alla storia con il titolo di “Possibilità economiche per i nostri nipoti”. Nel suo discorso, Keynes azzardò una previsione: “Fra cent’anni avremo una settimana lavorativa di quindici ore”. Oggi le sue parole suonano eccessive, ma la linea tendenziale indicata dall’economista britannico trova un riscontro nella realtà: si sta infatti assistendo da diversi anni a una graduale riduzione delle ore lavorate per anno.
È in questa cornice che si torna a parlare di settimana corta, spesso riassumendola in maniera grossolana nella formula “lavorare quattro giorni anziché cinque”. Il concetto, in astratto, è molto chiaro: si lavora di meno, a parità di stipendio, producendo lo stesso o, auspicabilmente, di più. La sperimentazione procede abbastanza spedita in varie parti del mondo, e anche in Italia aziende come il Gruppo Magister (che conta circa 250 dipendenti) sono passate a 32 ore settimanali lasciando invariato tutto il resto, compresi i benefit.
La settimana corta viene caldeggiata soprattutto dal segretario della Cgil, Maurizio Landini, che ha recentemente annunciato la discussione della proposta nel prossimo congresso sindacale di marzo con l'idea di “redistribuire ricchezza”. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha aperto alla proposta del sindacato, rimarcando però l’obiettivo di “aumentare produttività e occupazione”.
Per Maurizio Del Conte, docente della Bocconi ed ex presidente dell’Anpal, c’è bisogno di fare chiarezza. Innanzitutto, “la settimana corta non ha effetti sull’incremento dell’occupazione”, dice al Foglio perentorio. “Non è un modo per aumentare la partecipazione, ma è il cambiamento dell’organizzazione di un’azienda”. Il principio è semplice: si lavora meno per lavorare meglio. Ma proprio questa condizione – l’efficientamento della capacità produttiva – stronca ogni possibilità di creare nuovi posti di lavoro. E, sempre per lo stesso motivo, la settimana corta in Italia è destinata a rimanere, almeno nel breve periodo, una rivoluzione per pochi. “Soltanto le aziende che hanno una grande capacità di analisi possono permettersi di sperimentare una soluzione del genere”, avvisa Del Conte.
Il punto, spiega il docente, è cogliere il significato reale della settimana corta in un mondo del lavoro “che non è più quello degli anni Settanta, col fordismo e tutta l’annessa retorica”. La riduzione delle ore lavorative rappresenta soltanto uno strumento di welfare aziendale: “Non ci sono operazioni di tipo sociale”, rimarca Del Conte. “Le aziende lo fanno per aumentare la performance, non certo per far lavorare più persone”. Si deve quindi fare attenzione ad impostare la discussione “tenendo in considerazione la realtà”. Sincronizzando le narrazioni a un mondo che “è cambiato e sta tuttora cambiando”. “Non c’è mai stata, da quarant’anni, una sproporzione fra domanda e offerta così favorevole all’offerta”, dice Del Conte. E qui non possono non venire in mente i dibattiti sulle “grandi dimissioni” italiane che, sottolinea, sono in realtà grandi trasferimenti: “Una cosa è sicura, sono tutte persone che, dopo essersi dimesse, trovano un nuovo lavoro”. Ma, esattamente come per la settimana corta, rimane allo stato attuale un processo che “coinvolge soltanto una fetta del mercato”. Una parte molto specifica: “Chi ha le competenze e può farle pesare”. Se è vero allora che, soprattutto fra i giovani, l’idea di lavoro sta evolvendo, tuttavia nel breve periodo “non ci sarà nessun cambiamento sostanziale”.
Ignorare la complessità e la gradualità di questi fenomeni, “equivale a ridurre tutto a uno slogan”, è il monito di Del Conte. A maggior ragione “in una contingenza come quella attuale”, dove i problemi rimangono molto seri e richiederebbero prudenza, oltre che capacità di visione. La profezia di Keynes non si è avverata, ma le sue parole pesano come un anatema sul futuro del lavoro. Proprio per questo, “le vecchie bandierine politiche” – come le chiama ironicamente Del Conte – andrebbero aggiornate quanto prima.