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Superbonus e crescita. Una via d'uscita che limiti i danni

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

Lo stop era doveroso, ma rischia di avere effetti recessivi. Lo si può ripensare in maniera più equa 

Il problema del superbonus è che il blocco improvviso delle attività potrebbe avere anche un effetto sulla crescita. Se il paese era riuscito a scampare a una recessione e le previsioni di crescita dell’anno prossimo sono di +0,6 per cento (Fmi) c’è da domandarsi cosa ne sarebbe di questa stima se l’edilizia si bloccasse. Sì, perché è vero che il superbonus non è stato cancellato ma è anche vero che l’eliminazione repentina della cessione dei crediti su tutti i bonus ha provocato lo stallo dei cantieri visto che famiglie e operatori non si fidano più. Quale sarà l’effetto sulla crescita dipende da quanto contano davvero i bonus edilizi nei calcoli del pil e quante aziende (molte nuove aziende nate in questi mesi) e professionisti si potranno riconvertire rapidamente su altri progetti edilizi per esempio quelli del Pnrr.

 

Dai dati di Banca d’Italia si evince che il valore degli investimenti conclusi e finanziati con il superbonus è nel 2021 di 11,18 miliardi e nel 2022 di 35,45 miliardi (a fronte di investimenti totali in edilizia nel 2021 di 85,66 miliardi e nel 2022 di 98,13 miliardi). Gli investimenti col superbonus sono cresciuti di 24,27 miliardi nel 2022, di questi la metà secondo Banca d’Italia sarebbe stata fatta anche in assenza di superbonus, quindi si può sostenere che 12,14 miliardi circa di investimenti siano aggiuntivi e dovuti esclusivamente al superbonus. Sarebbero questi 12,14 miliardi che vengono a mancare se il superbonus si bloccasse o rallentasse sostanzialmente nel 2023.

    

Se dessimo retta a vari rapporti, spesso commissionati da parti interessate, che avevano quantificato l’effetto del superbonus sulla crescita con cifre astronomiche, l’effetto sul pil sarebbe devastante. Secondo recenti stime molto ragionevoli di Cresme-Ance l’effetto moltiplicativo sul pil è di 1,1 (ogni miliardo di superbonus aumenta il pil di 1,1 miliardi). Quindi verrebbero a mancare circa 13,35 miliardi alla crescita 2023, lo 0,7 per cento di pil probabilmente sufficienti ad andare in recessione. Un moltiplicatore di 1,1 è una stima standard per l’effetto degli investimenti pubblici, quindi niente di straordinario. Il superbonus è un investimento pubblico come un altro perché, nonostante riguardi interventi privati, questi sono sussidiati al 100 per cento  da denaro pubblico, anzi al 110 per cento. Ma l’effetto medio sul pil di 1,1 non vuol dire molto, l’effetto distributivo è diverso a seconda di quanti sono i beneficiari dell’investimento.

   

A fine gennaio 2023, secondo i dati Enea il superbonus è andato a circa 200 mila famiglie che lo hanno utilizzato per case unifamiliari per una media di 113 mila euro a testa, il che significa che molti hanno ricevuto più di 200 mila euro di beneficio. Inoltre, bisogna tenere conto che di tale beneficio ne hanno usufruito anche i proprietari di seconde case o case date in affitto (che in Italia rappresentano circa il 29 per cento del totale) o addirittura coloro i quali sono proprietari di case ma residenti all’estero e che quindi non pagano le tasse in Italia ma che attraverso la cessione del credito o lo sconto in fattura hanno potuto utilizzare i benefìci del 110 per cento senza pagare le tasse. Il rischio è quello di aver pagato la ristrutturazione della casa a chi aveva la possibilità di pagarsela o che comunque sarebbe stato disposto a effettuare i lavori anche fruendo di un credito di imposta o sconto in fattura molto minore del 110 per cento.

 

Si è speso quindi troppo con risultati distributivi poco desiderabili. Il governo è intervenuto il 17 febbraio scorso con un decreto legge in cui si abolisce la possibilità di cedere il credito di imposta e di utilizzare lo sconto in fattura rendendo la misura ancora più iniqua, poiché di fatto si impedisce agli incapienti di poter fruire dell’agevolazione. A questo punto cosa si può fare? 

 

Se si vuole lasciare il superbonus chiaramente bisogna prevedere una fascia di reddito al di sotto della quale venga concessa la possibilità di cessione del credito o sconto in fattura (nel 2016 la cessione  era possibile solo per gli incapienti e solo all’operatore privato che faceva i lavori), ma soprattutto bisogna diminuire la quota di spesa che lo stato finanzia, rendendola magari variabile in modo inversamente proporzionale con il livello del reddito.

 

Nel frattempo che si cerca una soluzione per i crediti incagliati (che corrispondono a impegni per lavori futuri per qualche anno a venire) e si ridisegna la misura in modo che sia stabile e sostenibile a regime, sarebbe opportuno minimizzare il rischio di recessione. Visto che comunque il superbonus è equivalente a un investimento pubblico, si potrebbe pensare a un fondo finanziato almeno con parte delle risorse risparmiate dal blocco della cessione dei crediti d’imposta e dello sconto in fattura. Tale fondo dovrebbe essere destinato a finanziamenti ex-ante di opere di efficientamento energetico del patrimonio del demanio pubblico e delle case popolari. In tal modo si potrebbe finanziare la ristrutturazione di molti edifici, gestiti dalle Iacp (Istituto autonomo case popolari), abitati da cittadini appartenenti a classi di reddito basse. Si otterrebbe sicuramente una distribuzione più equa dei benefici e si raggiungerebbe di certo l’obiettivo di decarbonizzazione. 

 

Perché alla fine il superbonus non è stato creato solo per sostenere il pil in un momento drammatico dell’Italia quale quello della pandemia, ma anche per ridurre i consumi di energia e l’inquinamento. Per ora la decarbonizzazione è stata poca perché il demanio pubblico ha fatto poco ed è stata raggiunta a prezzi molto elevati anche perché il superbonus stesso ha fatto aumentare il prezzo dei lavori. Si inizi dal settore pubblico a dare il buon esempio, tanto il 110 per cento è un investimento pubblico che per ora ha avuto benefici solo per pochi privati.

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