prospettive
Settimana corta? Vade retro produttività. In Italia la discussione finisce subito a sussidi
Il tema delle 32 ore è un antico topos identitario che chiama in causa vari fattori, dai lavoratori alla cultura aziendale fino al consenso sociale. Ma da noi si preferisce battere la strada sicura dell'intervento statale anzichè affrontare seriamente il dibattito
Col caratteristico ritardo di percezione, in questo periodo in Italia si moltiplicano i riferimenti all’esperimento della settimana lavorativa di quattro giorni e trentadue ore, lanciato da un imprenditore neozelandese operante nei servizi finanziari, e che si è rapidamente estesa a numerosi altri progetti pilota in altre parti del mondo, prevalentemente anglosassone.
Quattro giorni per otto ore non è la vecchia formula dell’orario flessibile, che riorganizza le attività al margine, restando entro il precedente orario settimanale. E’ soprattutto un grande esperimento di mutazione della filosofia del lavoro, orientandolo al risultato e all’autonomia e propositività dei lavoratori. Questo esperimento nasce con l’obiettivo multiplo di conseguire maggior benessere psicofisico, eguaglianza di genere e minore impronta di carbonio. I perplessi temono invece perdite di produzione, erosione della cultura aziendale, rischi di accentuare i fenomeni di burnout, se si finisce condannati a rispettare i tempi di consegna del prodotto aziendale lavorando meno ore, e persino la spinta verso un secondo lavoro.
Ridurre le ore lavorate a retribuzione invariata significa una cosa, semplicemente: generare produttività aggiuntiva in pari misura. Le aziende coinvolte nei trial della 4DayWeek sono eterogenee, spaziando dai servizi finanziari e assicurativi alle catene di fast food. Di conseguenza, automazione e ridisegno dei processi organizzativi hanno pesi variabili ma compresenti. Sarebbe quindi piuttosto ottuso pensare che basti la variabile umana motivazionale e non anche, se necessario, l’investimento in nuove tecnologie chiesto dal basso, dai suoi utilizzatori aziendali e non calato dall’alto con le slide di qualche consulente esterno.
Gli esperimenti vengono avviati, e non potrebbe essere altrimenti, se in azienda esiste una cultura cooperativa e l’orientamento a non strutturare i processi calando direttive dall’alto. Diremmo che serve consenso sociale, per semplificare. Senza quello, l’esperimento neppure inizia. Obiettivo è quello di evitare il cosiddetto quiet quitting, in cui il lavoratore esegue i compiti secondo la lettera dei mansionari e attende nuovi input, per ciò stesso tenendo basso l’output dell’organizzazione. Non è difficile cogliere la potenziale ambivalenza di questa riorganizzazione: da generatrice di sinergie e benessere psicofisico a strumento di ulteriore sfruttamento di lavoratori già stressati.
E poi ci sono le chiavi di lettura italiane. Il tema dell’orario di lavoro è un antico topos identitario o anche un fischietto a ultrasuoni, a seconda dei punti di vista. Nel paese in cui il mainstream è convinto che “produttività” sia sfruttamento e cottimizzazione, oppure che sia il magico sottoprodotto della felicità che ci coglie quando ci dicono che dobbiamo stare di meno in ufficio o in fabbrica, è difficile fare discorsi di senso compiuto.
Anche le tesi congressuali della neo-segretaria del Pd, Elly Schlein, raccontano questa visione: “Lavorare di più non aumenta la produttività se si lavora male, mentre lavorare meglio sì”. Non è chiaro che significhi lavorare “male” e “meglio” ma sospetto che si tratti proprio della “spinta motivazionale” del tempo libero, una sorta di curva di Laffer dell’orario di lavoro vista da sinistra.
C’è chi invoca l’intervento pubblico, sotto forma di sussidio per integrare le retribuzioni, chi vorrebbe “partire dal Mezzogiorno”, cioè dalle zone dove la produttività tende a essere molto bassa, e ovviamente chiede sussidi per compensarne l’ulteriore affossamento che deriverebbe. C’è un non detto che urla, da parte sindacale: dare il via libera a queste sperimentazioni su base spontanea, come conseguenza di accordi tra imprese e lavoratori delle medesime, rischia di produrre la frantumazione della contrattazione collettiva, spingendola a livello di singola realtà produttiva. Si comincia dagli orari di lavoro e si finisce rapidamente e per naturale estensione a tutta la contrattazione, incluso il pacchetto retributivo, monetario e in benefit.
Ecco perché da noi si preferisce battere la strada sicura della richiesta di sussidi e l’immancabile erga omnes prodotto ope legis, come avrebbe detto Don Abbondio. Dal movimento di liberazione umana alla camicia di forza di norme minuziosamente codificate, il passo da noi di solito è molto breve. Sergio Endrigo cantava “per fare tutto ci vuole un fiore”, oggi si sarebbe adeguato ai tempi richiedendo un florilegio di sussidi.