l'editoriale dell'elefantino
I libberalisti esagitati della scienza triste che smanacciano sui social
Tipacci ferventi e scoglionati alla Michele Boldrin hanno fatto due proseliti due e li hanno chiusi in una setta americaneggiante. Ma non hanno il minimo senso della relazione tra lo stato di diritto, la legislazione economica e il corpo della nazione
C’è il liberista e c’è il libberalista esagitato, esaltato. Il primo maneggia la cultura e ha un’idea di mondo, il secondo la smanaccia sui social e non ha la minima idea di cosa siano la società, la storia. Mio nonno Mario diceva che bisogna dare un matto ai liberali, e aveva ragione, come si è visto nella storia italiana, come si è visto con Berlusconi nella sua epoca aurea, come si vede con Calenda che se non si fa iniezioni di mattocchieria e rapidamente finirà per sembrare un professore che si prende sul serio, Calenda sul serio, ma il nonno non poteva prevedere che si esagerasse tanto e che accademici buzzurri si facessero un punto d’onore di equiparare individualismo e regole libertarie da Reggio Calabria a Francoforte. La malattia di tipacci ferventi e scoglionati alla Michele Boldrin, il tiktoker col sandalo californiano esperto in insulsaggini e insulti accademici, è il pedagogismo, il cenacolo dei sicuri di sé, una variante economicista dell’azionismo di minoranza, l’accolita che odia l’italiano che è in loro, il famoso nemico delle vongole.
Hanno fatto due proseliti due, li hanno chiusi in una setta americaneggiante, e il risultato è che non capiscono Caserta, non si districano nella logistica padana, non hanno il minimo senso della relazione tra lo stato di diritto, la legislazione economica, e il corpo della nazione, compreso il suo disinvolto rapporto con la signora Finanza: scopano, ma a modo loro. E questi guardoni dell’accademia neolibberalista ubriaca spiegano incessantemente le regole del sesso a chi lo esercita, dall’alto del loro solipsismo.
L’individuo, la disciplina, la libertà, l’emulazione, la competizione e la concorrenza sono cose serie, non sono la fessa in mano alle creature. Pensate ai Draghi, al maestro Caffè, ai Modigliani, agli Alesina e ai Giavazzi: si sono variamente intricati con le agende, i programmi, il da farsi e il da pensarsi, non si sono mai limitati, nei loro immensi pregi e nei loro difetti, al dover essere. Il dover essere, il pomposo Sollen dei libberalisti esagitati, è un B movie, una sceneggiatura che avvilisce gli spettatori, non c’entra con Hayek e con Friedman, trasmette a platee inconsapevoli l’emozione di sentirsi superiori al pragmatismo, al senso della storia, alle tecniche da colpo di stato permanente con cui si fa politica in America e in Europa, dappertutto. C’è una bella differenza tra il whatever it takes, con il suo coraggioso senso del possibile, e il Tik Tok della scienza infusa che si propaga in un delirante balletto di idee adolescenti. La politica come concorso per manager, bum.
Mille volte meglio l’avvocato del popolo che a forza di pasticci trasformisti ci ha rifatto le facciate (non a me che la facciata l’ho persa per fortuna fin da piccino), che ci ha procurato con la pandemia soldi europei che forse non sapremo spendere, mille volte meglio il democristiano Fitto e il governo dei fascio-liberali che ci prova, e conosce l’uso della retromarcia, mille volte meglio la Ducia arrogante e gentile e la nipotina di Agostino Viviani di questi filosofi individualisti che tranciano e mandano e tronfieggiano adoperando due ideuzze sulle regole e la contabilità minore, le cifre senza risvolto storico, i salvifici numeri della scienza triste.