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In Italia il lavoro non è così precario come dicono gli indignati

Lorenzo Borga

Combattere i contratti a tempo determinato: Schlein ne ha fatto una questione di identità. I dati e il (falso) modello spagnolo 

La nuova sinistra di Elly Schlein ha fatto all-in sulla lotta alla precarietà. Tra le priorità della neo segretaria c’è il mercato del lavoro, le “lavoratrici e lavoratori precari sfruttati” e “alzare i salari”. Fino a farne una questione di identità: “Saremo quel partito che non si dà pace finché non avremo posto un limite alla precarietà o un limite ai contratti a tempo determinato” ha scandito Schlein.

Ma in Italia stiamo davvero sperimentando un’esplosione di precarietà nel mercato del lavoro? I dati dell’Istat sembrano mostrare il contrario. Tra i lavoratori dipendenti oltre l’83 per cento ha un contratto a tempo indeterminato, un dato superiore ai livelli pre Covid. E se guardiamo ai più giovani, dove i contratti a tempo determinato sono più frequenti, più di due su tre hanno un rapporto di lavoro stabile. Anche in questo caso osservare la serie storica è interessante: nel terzo trimestre 2022 abbiamo raggiunto il dato più alto dal 2017 (anno della prima ondata di Covid escluso, visto lo sconvolgimento del mercato del lavoro che ha provocato). Sebbene rimaniamo distanti dai livelli precedenti alla Grande Crisi finanziaria del 2007-2008, quando i contratti stabili tra i giovani superavano il 75 per cento.

La stessa tendenza si trova leggendo i dati Inps dell’osservatorio sul precariato, che non misurano i posti di lavoro bensì i contratti. I nuovi rapporti di lavoro occasionale sono in calo rispetto al periodo precedente alla pandemia. Nel 2018 e 2019 furono stipulati circa 225 mila nuove collaborazioni di questo tipo, per oltre 4 milioni di ore di lavoro. Nel 2022, se il trend venisse confermato anche per gli ultimi tre mesi dell’anno per cui non sono ancora disponibili i dati, dovremmo riscontrare un calo del 25 per cento sia dei nuovi rapporti occasionali che delle ore lavorate con questi contratti. Quando usciranno i numeri definitivi sull’ultimo anno dovremmo trovare cali rispetto al trend pre Covid – in percentuale al totale – pure per le assunzioni in somministrazione e con contratto intermittente. Mentre sono in forte espansione i rapporti di lavoro stagionali, sulle ali della ripresa del turismo estivo e invernale dopo i lockdown.

Insomma a guardare i numeri non sembra che l’Italia stia morendo di precarietà, come farebbe pensare il successo di Elly Schlein. Semmai il Pd sembra essere stato colpito dal desiderio di pentirsi e lavare il peccato dell’èra renziana durante la quale fu approvato il Jobs Act, che la nuova segretaria ha definito “un errore”. L’ultima vera (ma incompleta) riforma del mercato del lavoro che abbiamo visto in Italia, per la verità smontata quasi pezzo per pezzo da sentenze della Corte costituzionale. Ma una delle gambe dei decreti legislativi che nel 2015 ridisegnarono il mercato del lavoro che ancora sta in piedi è quello sulle tutele per chi perde il lavoro, che furono estese per renderle davvero universali tramite la Naspi. Una tutela contro la disoccupazione i cui benefici non sono più legati all’età anagrafica ma ai contributi versati e a cui possono accedere tutti non solo chi ha un contratto di lavoro da più di due anni (come avveniva in precedenza, discriminando i più giovani). Una riforma di cui si è parlato troppo poco, e mai rivendicata dal Partito democratico.

Oggi il Pd guarda invece al modello spagnolo. Il governo socialista di Pedro Sánchez nel 2022 ha reso più difficile assumere un lavoratore a tempo determinato, restringendone la durata massima e le causali. La riforma era contenuta anche nel piano contrattato tra Madrid e Bruxelles per ricevere i soldi del Recovery Fund. In questo modo nel corso dell’anno i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti a scapito di quelli a termine, la cui quota è crollata di un quinto in pochi mesi. Ma i democratici italiani dovrebbero sapere che la Spagna non può essere presa a modello: Madrid partiva infatti da una condizione di vera precarizzazione selvaggia del mercato del lavoro, caratteristica che come abbiamo dimostrato non appartiene al caso italiano. Secondo i dati Eurostat nel 2021, anno prima della riforma,  oltre un dipendente spagnolo su cinque aveva un contratto a termine, la percentuale più alta d’Europa e quasi doppia a quella italiana. Insomma, il modello spagnolo non è un modello.