prospettive future
Fisc-inflation, è anche il deficit fiscale che spinge i prezzi all'insù
Non è la quantità di moneta, ma il debito pubblico a determinare l'aumento dei prezzi. E nonostante l'Europa si dice flessibile, intanto c'è da fare le leggi di Bilancio sapendo che presto i vincoli imposti dalla Bce torneranno
L’irritazione di Ignazio Visco per l’intemperanza dei falchi Bce, le anticipazioni di Paolo Gentiloni sulla riforma del patto di Stabilità e l’allarme di Giancarlo Giorgetti per l’impatto del caro denaro sul bilancio pubblico portano verso la stessa direzione: l’inflazione non si combatte solo con l’aumento dei tassi d’interesse, occorre un coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale, tra Banca centrale e governi pur senza ledere la sacrale indipendenza. Torna di moda, insomma, quella “teoria fiscale dell’inflazione” elaborata per la prima volta nel 1981 da due eminenti economisti americani: Thomas Sargent, premio Nobel nel 2011, e Neil Wallace, i campioni della “nuova economia classica”? Certo, si tratta di un approccio teorico rivalutato dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri), la banca delle banche centrali, che ne ha cercato conferma con uno studio proiettato su ben quattro decenni ed esteso ai paesi più industrializzati: “Fiscal deficit and inflation risk” di Ryan Banerjee, Valerie Boctor, Aaron Mehrotra e Fabrizio Zampolli.
Il risultato è che “quando un paese continua a mantenere un disavanzo di bilancio, ogni tentativo di controllare l’inflazione da parte delle autorità monetarie può provocare maggiore inflazione futura”. Allora ha ragione il ministro italiano dell’Economia, solo che dovrebbe considerare anche la relazione inversa: tassi d’interesse elevati peggiorano le finanze pubbliche perché aumentano il costo del debito, ma a un tempo un disavanzo e un debito elevati sono il brodo di coltura dell’inflazione. “Per risolvere l’inflazione, risolvere il deficit”, ha scritto il Wall Street Journal. Ciò vale per l’Italia, ma tutti i paesi oggi hanno un bilancio pubblico in disavanzo, anche se con percentuali diverse: Stati Uniti 5,2 per cento, Francia 5,3 per cento, Italia 4,7 per cento, Germania 2 per cento e perfino l’austera Olanda è al 2,7 per cento. Se poi volessimo considerare solo il deficit al netto degli interessi pagati sul debito, l’Italia starebbe con i virtuosi, ma anche questo conferma la spirale perversa, persino paradossale, provocata da una stretta eccessiva.
Gli economisti della Bri sottolineano che tutti i paesi hanno speso in disavanzo per combattere gli effetti economici della pandemia e poi per tamponare l’impatto del caro energia, ciò ha contribuito a creare un ambiente favorevole all’inflazione, non basta dunque aumentare il costo del denaro, anzi può essere controproducente perché costringe a finanziarsi sul mercato con oneri più elevati. Di qui la necessità di politiche coordinate, ciò vale per gli Usa come per l’Eurolandia. La Gran Bretagna guidata da Liz Truss che ha applicato la ricetta opposta (più deficit e tassi più alti) ha rischiato il tracollo. La Turchia che ha abbassato troppo i tassi ha perso il controllo della lira. Anche un mega studio dell’economista americano John Cochrane (558 pagine) mostra che “non è la quantità di moneta, ma il debito pubblico a determinare l’aumento dei prezzi”. Sia i seguaci di Milton Friedman sia gli adepti di John Maynard Keynes salteranno sulle loro comode poltrone. Il dibattito teorico accenderà gli animi e aguzzerà le menti, intanto, però, c’è da fare le leggi di Bilancio tenendo conto che tra un anno torneranno i vincoli nell’Eurolandia.
Le proposte di riforma finora messe a punto hanno come comune denominatore la flessibilità. Niente più regole rigide, niente più pilota automatico né mannaia della troika. Ma ciò non toglie che le trattative tra i governi e la Commissione europea saranno “a muso duro”. Giorgia Meloni già affila la sciabola, tuttavia prima di chiedere più spazi nel bilancio pubblico dovrà provare che è in grado di spendere quesi 200 miliardi di euro, tra prestiti e fondo perduto, che ha ottenuto dall’Unione. E non sarà dura solo per l’Italia, la Grecia, il Portogallo, la Spagna, insomma i malfamati Pigs, basta guardare a quel che accade in Francia per un aumento dell’età pensionabile di appena due anni.
Non sarà indenne nemmeno la Germania: anche se ha margini di manovra più ampi, sta erogando molti sussidi per la transizione industriale e non è chiaro come saranno calcolati. Lo stesso si può dire per le spese militari e gli aiuti all’Ucraina oltre un certo limite. Sarebbe stato meglio accettare la vecchia proposta di Mario Monti e Romano Prodi, cioè separare la spesa corrente da quella per investimenti e non considerare quest’ultima come fonte di disavanzo inflazionistico. Insomma, un po’ come la distinzione draghiana tra debito buono e cattivo. Ma Draghi, come sappiamo, è un eterodosso.
sindacati a palazzo chigi