Dal Rdc alla Mia, pregi e limiti della riforma Calderone
Stranieri, famiglie, penalizzazioni per il nord e “occupabilità”. Cosa va e cosa non va nel sostituto del Reddito di cittadinanza
Non sappiamo se le indiscrezioni sulla Misura per l’inclusione attiva (Mia) che sostituirà il Reddito di cittadinanza (Rdc) saranno confermate (a partire dal nome), ma possono essere utili per capire in quale misura il governo stia tenendo conto dei problemi che il Rdc ha manifestato: molti stranieri sono esclusi a causa dei 10 anni di residenza richiesti; penalizza le famiglie numerose; non tiene conto delle differenze geografiche nel costo della vita; disincentiva il lavoro e non è ben integrato con le politiche attive. Gli anni di residenza per ottenere il sussidio scenderebbero da 10 a 5, una scelta obbligata dalla procedura d’infrazione della Commissione Europea, e non è detto che basti.
Il Rdc ha una scala di equivalenza piatta che favorisce le persone sole e danneggia le famiglie numerose. Pare che si vada verso una moderata redistribuzione a favore delle famiglie con figli, considerando anche la fruizione dell’Assegno unico per i minori di 21 anni. Sembra però che la Mia non faccia passi avanti su un altro punto debole del Rdc.
Le regole su soglie e importi sono ancora le stesse per tutto il paese e non considerano le differenze nel costo della vita (25-30 per cento tra nord e sud). A parità di tenore di vita, un povero al nord deve avere un reddito superiore a quello dei poveri residenti altrove per acquistare la stessa quantità di beni e servizi. Data questa differenza media di reddito e quindi di Isee, che non riflette migliori condizioni, i poveri del nord sono penalizzati sia nell’accesso che nell’importo del sussidio. La Mia accentua queste disparità perché la riduzione della soglia Isee restringerà la platea a famiglie con redditi molto bassi che sono più presenti al sud. Per evitare veti politici di chi teme il ritorno delle “gabbie salariali” si potrebbero invece fissare criteri base validi ovunque, integrati da componenti che dipendono da differenze oggettive tra aree, ad esempio per i costi per l’affitto o per il riscaldamento. Importi reali del sussidio relativamente più alti nelle zone con minore costo della vita sono non solo ingiusti ma anche inefficienti: distorcono le scelte di lavoro e possono ridurre la mobilità tra aree.
Quanto agli scarsi risultati finora ottenuti nell’inserimento lavorativo, anche a causa del Covid il Rdc si è rivelato per tanti beneficiari solo un trasferimento monetario senza percorsi di inclusione. Si potrà fare certo meglio con i servizi, ma la vera novità sta nella riduzione della durata e dell’importo della Mia per gli “occupabili” (chi non vive in nuclei con minori, over 60, disabili). In questo modo il governo vuole aumentare la pressione su di loro affinché trovino un lavoro.
Sulla durata, mentre il Rdc è disponibile fino a quando rimane la condizione di bisogno, con un mese di interruzione ogni 18, la Mia per gli occupabili durerà 12 mesi, poi dopo un mese di pausa altri 6, quindi bisogna aspettare un anno e mezzo per rifare domanda (per i non occupabili cambia poco rispetto al Rdc). L’importo della Mia per i non occupabili dovrebbe essere lo stesso del Rdc, mentre se la parte del sussidio per l’affitto andrà solo alle famiglie con minori o anziani, allora per un adulto solo in affitto e occupabile la Mia potrebbe dimezzarsi rispetto al Rdc.
Il forte calo della generosità del sussidio per gli “occupabili” determina due conseguenze. La prima è che si riduce l’aiuto per i tanti working poor, cioè chi rimane povero pur essendo occupato. Oggi chi ha un reddito da lavoro molto basso può cumulare reddito da lavoro e Rdc, e infatti in molte famiglie con Rdc ci sono lavoratori. Con il Mia questo (per gli occupabili almeno) non sarà possibile sia per il basso importo che per i lunghi mesi di pausa tra una domanda e l’altra. Meglio sarebbe aiutare i lavoratori poveri a raggiungere un tenore di vita dignitoso con un in-work benefit che integri il reddito da lavoro.
La seconda e più grave conseguenza è che molti poveri perderanno il sussidio senza aver trovato un lavoro. Gran parte di loro è infatti concentrata nelle regioni meridionali dove le occasioni lavorative solo carenti, ed è occupabile solo sulla carta per tanti possibili fattori personali (età, istruzione, salute…). La divisione tra occupabili e non occupabili è già presente nel Rdc e in tutti i welfare state europei. Di solito però questa distinzione serve per capire come aiutare meglio le persone in difficoltà, non per differenziare durata e importo del sussidio. Se applicata rigidamente, può sancire la fine dell’aiuto pubblico per molte persone che, al di là delle caratteristiche anagrafiche, in realtà hanno ben poche speranze di trovare un lavoro. Potremo ancora sostenere che l’Italia ha una misura universale di sostegno al reddito se i poveri “occupabili” ne rimarranno per lunghi periodi esclusi?
Massimo Baldini
economista, Università di Modena-Reggio Emilia