Cosa succede adesso
Perché il crac della Svb è anche un gran monito per le banche centrali
Il caos della Silicon Valley Bank mette in discussione la stretta monetaria. Milano nel frattempo perde il 4 per cento: tutti i guai mondiali con la liquidità
E adesso, le banche centrali aumenteranno ancora il costo del denaro? Il crac della Silicon Valley Bank (Svb), il peggiore dopo quello di Lehman Brothers del settembre 2008, rimette in discussione la stretta monetaria e potrebbe spingere la Federal Reserve a sospendere il prossimo rincaro dei tassi d’interesse. Joe Biden ha giurato che farà “whatever is needed”, qualunque cosa sia necessaria, per proteggere chi ha messo i soldi nella Svb (la più grande nella patria del mondo digitale). Così il presidente ha portato un po’ di sollievo a Wall Street (l’indice Dow Jones ha oscillato attorno allo zero). Peggio le borse europee (-2 per cento in media), maglia nera Milano (-4 per cento) anche per il peso di banche e assicurazioni nel listino. Il fallimento verrà pagato da azionisti e obbligazionisti non dai depositanti per lo più imprenditori i quali hanno dato fuoco alle polveri. Non pagheranno nemmeno i contribuenti, sostiene il presidente americano. Ma cosa accadrà ai clienti delle altre aziende creditizie crollate la scorsa settimana: la Signature Bank specializzata in immobili e la californiana Silvergate che opera in criptovalute?
Sperando che non chiuda i battenti anche la First Republic di San Francisco (attività totali 181 miliardi di dollari, 6.300 dipendenti), le cui azioni sono precipitate del 75 per cento, seguita da gran parte delle banche regionali vere bombe a orologeria anche perché con la presidenza Trump a molte di loro si è consentito di non applicare le regole di Basilea sui parametri patrimoniali, introdotte dopo la grande crisi finanziaria. Negli Stati Uniti i depositi sono garantiti fino a 250 mila dollari, per la Svb non c’è più limite, un precedente che, esteso all’intero sistema, rompe un tabù e sarà costosissimo. “Nella tana della volpe tutti vogliono privatizzare i profitti e socializzare le perdite”, ha scritto John Thornhill sul Financial Times. Il problema numero uno è evitare il contagio, poi si vedrà. Le banche dell’Eurolandia, comprese quelle italiane, sono meno esposte perché rispettano gli indici patrimoniali, ma anche se il rischio non arriva dai loro bilanci, quando si diffonde il panico nessuno è al sicuro. La situazione preoccupa la Bri, la banca delle banche centrali, che si è riunita a Basilea.
L’agenzia di rating Fitch aveva già avvertito che il rapido aumento dei tassi e il quantitative tightening (cioè la fine degli acquisti di titoli pubblici) stavano mettendo sotto pressione la liquidità delle banche americane, tanto che scendono sia i depositi sia le riserve. Tra gli analisti cresce la convinzione che la Fed farà una pausa. La Goldman Sachs lo ha detto esplicitamente. Come si comporterà la Bce che giovedì dovrebbe annunciare un nuovo rialzo di mezzo punto percentuale, nonostante i dubbi delle “colombe mediterranee” guidate dalla Banca d’Italia? Il rally dei tassi ha creato le premesse del crac, anche se la colpa è degli errori commessi e del modello di business seguìto dalle banche coinvolte. Le criptovalute hanno mostrato tutti i loro limiti (e pericoli dopo lo scandalo di Ftx e l’arresto di Sam Bankman-Fried), il real estate è esposto alla speculazione, quanto alla Silicon Valley è in corso una maturazione che può essere salutare, ma non c’è dubbio che la brusca fine della moneta facile ha messo tutti sotto stress. Il caso Svb, così, diventa emblematico: le imprese si erano indebitate quando il credito non costava nulla e la banca si era riempita di obbligazioni a reddito fisso che rendevano bene con interessi al minimo. Ora che il vento è cambiato le aziende hanno bisogno di denaro liquido, ma la Svb per ricoprirsi può vendere solo bond che oggi valgono molto meno, creando una voragine nei propri conti.
La stretta monetaria non è un capriccio, serve per portare l’inflazione entro il tetto del 2% l’anno prossimo, ma i prezzi calano meno rapidamente del previsto (6 per cento negli Usa, 8 per cento nell’area euro, 9 per cento in Italia), l’economia cresce, le aziende continuano ad assumere e aumentano i salari (più negli Usa che nella Ue), si crea così una pressione che tiene alta la febbre anche ora che i costi dell’energia e delle materie prime sono scesi in modo spesso drastico. L’inflazione da domanda si sta sostituendo all’inflazione da offerta. Sono gli Usa a tirare la volata, tuttavia l’Eurolandia segue, compresa l’Italia dove le fabbriche vanno a tutto spiano: i terminali della Banca d’Italia nel settentrione mostrano che il boom del 2022 non s’è affatto spento, al contrario. Questo disallineamento tra economia reale e politica monetaria può creare una reazione pericolosa spingendo le banche centrali a tirare la corda fino a provocare una severa recessione, unica condizione necessaria e sufficiente a ridurre l’inflazione. In una situazione normale. Ma lo scenario internazionale non è affatto normale con la guerra in Ucraina, il neo imperialismo russo e la sfida egemonica cinese. Una recessione in occidente avrebbe un effetto elettrizzante su Zar Vlad e King Xi. Davvero Jay Powell e Christine Lagarde non se ne rendono conto? Biden ha lasciato in soffitta l’ortodossia economica. Quanto al conservatore Rishi Sunak, ha fatto comprare dalla Hsbc per una sterlina la filiale inglese della Svb. Politique d’abord.
tra debito e crescita