bruxelles guarda all'italia

Sulla ratifica del Mes, Meloni ha finito le scuse e l'Europa ha perso la pazienza

Luciano Capone

Da Bruxelles, alla luce del crac SVB, si intensifica il pressing sull'Italia per il sì al trattato. Il governo, dopo aver aspettato Germania e Croazia, non ha più giustificazioni ma Giorgetti continua con la politica dello struzzo. Per quanto ancora?

Quando i problemi non vengono affrontati tendono a ripresentarsi in maniera più accentuata. Come anticipato sul Foglio del 9 marzo, a Bruxelles e nelle altre cancellerie europee ne hanno un po’ le scatole piene dell’inerzia del governo Meloni sul Mes. E pertanto il presidente dell’Eurogruppo Paschal Donohoe, l’altroieri, ha di nuovo chiesto pubblicamente al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti di rispettare gli impegni presi, anche dopo gli incontri avuti in Italia, e di ratificare il nuovo trattato del Meccanismo europeo di stabilità. Giorgetti, al momento, continua a fare lo struzzo.

 

La ratifica della riforma del Mes “sarebbe vantaggiosa per tutti, noi però riconosciamo la sensibilità della questione nel Parlamento italiano e continueremo a lavorare certamente con il governo italiano per fare progressi”, ha detto Donohoe. Il ministro irlandese, al termine dell’Eurogruppo, ha aggiunto: “Vogliamo continuare a lavorare con il ministro Giorgetti per fare progressi nella ratifica del trattato perché quel trattato permetterà di approfondire l’Unione bancaria e rafforzare la capacità dell’Ue di fronteggiare situazioni di dissesto che dovessero verificarsi in futuro”. Alle sollecitazioni di Donohoe si sono aggiunte quelle del direttore esecutivo del Mes, il lussemburghese Pierre Gramegna, eletto al vertice del Fondo salva stati con il voto determinante proprio dell’Italia e con un programma che prevede il completamento dell’iter di ratifica del nuovo trattato. “Ci adopereremo al massimo per fornire tutti gli argomenti necessari al governo italiano per procedere con la ratifica”, ha detto più esplicitamente Gramegna annunciando nuovi incontri in Italia nelle prossime settimane.

 

Al Mef fanno finta di nulla, sebbene la posizione dell’Italia sia sempre più insostenibile. Fino a pochi mesi fa, Giorgetti diceva furbescamente “aspettiamo con pazienza la decisione della Corte di Karlsruhe”, ovvero la ratifica della Germania. Poi a dicembre, dopo poca attesa, la sentenza è arrivata e così la ratifica di Berlino. Allora, il governo italiano ha tirato un altro calcio alla lattina affermando che “manca ancora la Croazia”, che è entrata nell’Eurozona con l’inizio del 2023. Ma anche questa scusa è durata poco, visto che la Croazia – in tempi rapidissimi – ha aderito al Mes e ratificato sia il trattato in vigore sia la riforma. E così l’Italia ora si ritrova nella solita posizione scomoda e pure a corto di scuse: unico paese dell’Eurozona (prima uno su diciannove, ora uno su venti) a non aver ratificato il nuovo trattato e quindi a impedirne l’entrata in vigore.

 

Posizione che, di fatto, equivale a un veto. E che, oltre a essere indisponente, appare anche incomprensibile visto che proprio in questi giorni il fallimento negli Stati Uniti della Silicon Valley Bank (Svb) e la conseguente instabilità sui mercati finanziari, come ha osservato lo stesso Gramegna, “sottolineano l’importanza di ratificare il trattato da parte di tutti i paesi perché il backstop del Fondo di risoluzione unico è uno dei miglioramenti principali offerti dal nuovo trattato”. Infatti, la riforma che attende solo il visto italiano prevede proprio una rete di protezione (il cosiddetto backstop) in caso di crisi bancarie sistemiche: un pezzo fondamentale dell’Unione bancaria, peraltro richiesto anche dall’Italia. A questo punto, viste le circostanze e i potenziali rischi di contagio, la linea italiana appare in Europa del tutto incomprensibile. Anche perché il governo non riesce a motivare le sue obiezioni, che in sostanza riguardano le storiche posizioni No euro e antieuropeiste sostenute da Fratelli d’Italia e dalla Lega che avevano individuato nel Mes un’incarnazione del male.

 

Fare retromarcia ha un costo politico interno alla maggioranza, ma tenere il freno a mano tirato ha un costo più elevato in termini di reputazione per il governo e per il paese. Questo è il dilemma. Oltre al pressing europeo, c’è anche quello interno. Oggi al question time alla Camera Giorgia Meloni dovrà rispondere a un’interrogazione del Terzo polo presentata da Luigi Marattin, che chiede se e quando il governo presenterà il ddl di ratifica della riforma del Mes “anche a tutela della credibilità internazionale dell’Italia”.

 

Finora la premier è stata ambigua, sebbene sia passata dal no assoluto a una richiesta di riforma ulteriore del Mes, la cui discussione però non può neppure partire se prima non arriva il suo sì alla riforma su cui tutti già concordano. Giulio Tremonti, consigliere della premier che una volta era ostile alla riforma del Mes, a gennaio aveva dichiarato che “Giorgia Meloni ha detto in sostanza che non vede alternative al voto italiano sul Mes”. Bisogna vedere se Meloni ribadirà il concetto in Parlamento, e se poi passerà dalle parole ai fatti. In Europa osservano e aspettano, con sempre meno pazienza.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali