Foto di Alessandro Garofalo, via LaPresse 

L'intervista

Perché sugli stadi stato e comuni devono dare più fiducia ai privati. Parla il capo della Serie A

Claudio Cerasa

Meno burocrazia, più business, più spettacolo. "Si deve cambiare il modo in cui queste strutture sono percepite: diventare luoghi di aggregazione, rigenerazione urbana, hub tecnologici", dice Lorenzo Casini

C’è la Nazionale, certo, ci sono i nuovi problemi di Roberto Mancini, ci sono le preoccupazioni rispetto al futuro dell’Italia calcistica, ci sono le incognite sul domani pallonaro del nostro paese ma se ci fosse un’emergenza da mettere con urgenza sul piatto delle priorità, quando si parla di calcio, quell’emergenza, oggi, coincide con una parola di cinque lettere: gli stadi.

Lorenzo Casini, numero uno della Lega calcio e ordinario di Diritto amministrativo alla Scuola IMT Alti studi Lucca, ha preparato un dossier importante e articolato sul futuro degli stadi italiani e in questa conversazione con il Foglio lancia un messaggio alla classe politica per aiutare il calcio a scrivere una pagina importante sul fronte delle infrastrutture. Kalle Rummenigge, storica bandiera della Germania, qualche giorno fa ha affrontato la questione con irruenza, ma ha centrato un punto: “Fino a quando gli stadi saranno di proprietà dei comuni le cose non potranno cambiare. In Germania eravamo messi come voi, il Mondiale 2006 ci permise di superare questo ostacolo e abbiamo costruito impianti bellissimi per le famiglie. L’organizzazione degli Europei 2032 potrebbe servire all’Italia per seguire il nostro esempio, io spero che vi vengano assegnati”.

Il tema, lo sappiamo, è cruciale anche per questioni di attualità che riguardano due grandi squadre di calcio italiane, Inter e Milan, che da mesi cercano di trovare un modo per poter realizzare finalmente un nuovo stadio di proprietà. E su questo argomento, intorno al futuro degli stadi, abbiamo discusso con Casini.

Incontriamo Casini in un ufficio di Roma a pochi passi da piazza Barberini. Casini ha di fronte a sé un dossier molto fitto. E ricco. Al centro vi è l’emergenza del calcio italiano, che proietta il mondo del pallone del nostro paese agli ultimi gradini della sua efficienza. Gli stadi, appunto. “L’Italia si trova in una situazione difficile, a tratti poco comprensibile per chi ci guarda dall’esterno. Impianti vecchi, con strutture inadeguate e pochissimi servizi. È dai Mondiali del 1990 che l’Italia – salvo alcuni casi virtuosi come, per esempio, gli impianti di Atalanta, Juventus, Sassuolo e Udinese – non riesce a rimettere davvero a fuoco il tema degli stadi. E comunque il 1990 è stata un’occasione non sfruttata appieno: non si tratta solo del problema delle piste di atletica attorno al campo, ma anche di alcuni impianti costruiti nell’ultimo mezzo secolo che oggi sono diventati addirittura inagibili, come accaduto a Cagliari con il Sant’Elia. Peraltro proprio a Cagliari abbiamo poi avuto un caso virtuoso di uno stadio provvisorio costruito in meno di quattro mesi, a conferma che quando si vuole le cose si possono fare”.

Concretamente: che cosa bisogna fare? “In Italia andrebbe cambiato il modo in cui lo stadio è percepito: prendiamo l’efficientamento energetico, di cui è carente quasi il 90 per cento delle infrastrutture calcistiche della Serie A. Ciò significa non rendersi conto di quello che possono essere gli stadi del futuro, ossia anche produttori di energia per i quartieri che li ospitano”. Il punto, dice Casini, è che lo stadio può e deve essere qualcosa in più di un marziano che atterra in un quartiere, “deve essere un luogo di aggregazione, inclusione, rigenerazione urbana, e può diventare anche un hub tecnologico, cosa che oggi non è se pensate solo a un piccolo gesto che si fa dentro uno stadio”. E sarebbe? “Fare una telefonata. Mandare un messaggio. Fare un tweet o usare Instagram o TikTok. Le celle, a stadio pieno, sono tutte occupate…”. 

La rivoluzione degli stadi può partire, basta solo volerlo, dice Casini, e basta solo capire che “lo stadio può vivere tutta la settimana, non solo la domenica, e può portare turismo, e non solo traffico il weekend. E può portare cultura con i musei del calcio o dei club, come avviene all’estero molto più di frequente che da noi. Per farlo, però, occorre fidarsi di più del privato”. In che senso? “Se lo stadio è di proprietà di una squadra, certamente le procedure possono essere più agili. A volte la proprietà comunale può rendere alcune procedure più complesse perché inevitabilmente i comuni devono ‘rispondere’ anche a una varietà di interessi locali o del territorio”.

Qualche esempio? “Ci sono stadi dove la realizzazione di nuovi servizi di ristorazione all’interno dell’impianto pone la questione della concorrenza di negozianti e operatori che si sono sviluppati all’esterno di quello stesso stadio. Sono problemi che in passato hanno vissuto anche musei e parchi archeologici, come Pompei”. E poi? “Ci sono stadi, come per esempio il Flaminio di Roma, che hanno vincoli storico-artistici tali da rendere estremamente difficile una ristrutturazione. Anche a Bologna e a Firenze è stata necessaria una fitta interlocuzione con le soprintendenze”. E ancora. “Ci sono anche stadi purtroppo dove non si riescono ad adeguare i servizi igienici”. Pausa.

“È chiaro che avere stadi d’eccellenza, come succede in Germania e nel Regno Unito, porta maggiori introiti, sia attraverso i ricavi derivanti dalle partite, sia attraverso i servizi accessori offerti quando la squadra non gioca”. Di quali cifre parliamo? “Dai dati Deloitte, sappiamo che nel 2022 – anno ancora in parte di pandemia – la media dei ricavi da stadio (i cosiddetti matchday revenue) dei top 20 club europei è stata di quasi 70 milioni di euro. Liverpool, Manchester United, Barcellona e Tottenham sono andati ognuna oltre i 100 milioni, il Bayern Monaco è in media con 68 milioni di euro, mentre gli introiti di Juventus, Milan e Inter messe insieme – le tre squadre italiane nella top 20 Money League – hanno raggiunto complessivamente 96 milioni di euro. Ma il valore aggiunto di avere stadi più moderni va ben oltre i ricavi delle partite”.

E come? “Uno stadio più efficiente, per esempio, aiuta ad avere uno spettacolo più bello, anche come riprese tv, e questo contribuisce anche a meglio licenziare i diritti audiovisivi”. E perché tutto questo non avviene? È una questione di risorse? “Non esattamente ed è questo il paradosso. È ovvio che le risorse sono importanti, anche perché parliamo quasi sempre di infrastrutture pubbliche. Perciò, soprattutto in occasione di grandi competizioni, è comprensibile che occorrano stanziamenti da parte di stato, regioni o comuni. Al riguardo è molto interessante l’ipotesi prospettata dal governo nei giorni scorsi, ossia quella di un fondo immobiliare stadi. Interventi importanti di ristrutturazione, del resto, possono valere oltre cento milioni di euro, mentre uno stadio completamente nuovo oggi può arrivare a richiedere anche mezzo miliardo di euro. E sono comunque investimenti che, se lo stadio è davvero moderno e attrezzato, sono remunerativi e quindi non è infrequente trovare investitori. I dati, però, mostrano che, anche quando ci sono i fondi, i progetti fanno fatica a essere realizzati”.

E allora perché c’è ancora questo ritardo? “La ragione principale è data dalla complessità delle procedure che in Italia caratterizza in generale le infrastrutture pubbliche. Inoltre, il livello comunale non è sempre sufficiente per gestire situazioni così articolate, al centro delle quali vi sono problemi che riguardano vincoli storico-artistici, la tutela dell’ambiente, la circolazione e i trasporti, la sicurezza, l’impatto paesaggistico. Tutti questi interessi rispondono anche o in via esclusiva ad altre amministrazioni, statali o regionali. È bene ricordare che la celebre ‘conferenza dei servizi’ è un istituto nato in via amministrativa già negli anni Cinquanta in urbanistica, ma che ha trovato la sua consacrazione legislativa proprio in occasione dei Mondiali di calcio del 1990, per poi essere inserita nella legge sul procedimento 241. Diventa perciò essenziale assicurare un coordinamento infrastrutturale tra tutti gli interessi coinvolti ed è per questo che la Serie A auspica l’attivazione di una cabina di regia a Palazzo Chigi, coordinata dal ministro Abodi che peraltro ha grandissima esperienza sul tema”. Ma può bastare?

“Sarebbe un inizio importante perché in quella sede si potrebbero affrontare e sciogliere i grandi nodi burocratici che rallentano i progetti. In questi mesi, la Serie A ha attivato un laboratorio infrastrutture che ha predisposto un dossier per ogni stadio: il patrimonio di dati, informazioni e conoscenze è stato raccolto, grazie a una collaborazione molto proficua con tutte le squadre e con l’Anci, che ringrazio”. E poi? “Una volta esaminati i dossier, ministro e governo potrebbero anche valutare l’ipotesi di creare un commissario per gli stadi, così da accelerare ulteriormente le procedure laddove occorre agire in fretta. E ciò a prescindere dalla candidatura italiana a Euro 2032, che certo sarebbe una straordinaria opportunità e che come Serie A sosteniamo e per la quale siamo a disposizione della Figc”.

E San Siro? “Ovunque, non solo a San Siro, è chiaro che in astratto la ristrutturazione o la demolizione e ricostruzione sono situazioni preferibili. In astratto, però, perché la realtà è spesso più complessa. Sono comunque sicuro che Inter e Milan sceglieranno la migliore soluzione possibile per avere impianti più moderni all’altezza del loro nome. Certo, se persino in un comune efficiente come Milano, con un sindaco dalle comprovate competenze manageriali e due squadre così importanti c’è un problema per fare uno stadio significa che il tema è enorme. Ecco perché sarebbe importante avere anche una iniziativa del governo per aiutare i comuni a definire un piano di priorità e interventi a vantaggio non solo dello sport e del calcio, ma di tutta la collettività”. Meno burocrazia, più efficienza, più valorizzazione del patrimonio, più business, più spettacolo. Chissà se il ministro Matteo Salvini avrà il coraggio e la forza di considerare l’ammodernamento di infrastrutture come gli stadi come una priorità per l’Italia del futuro. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.