energia
La variabile tempo nei nuovi contratti sul Gnl tra Usa e Ue
Sugli approvvigionamenti di energia l’Europa rischia di trovarsi spiazzata da sé stessa: l'urgenza è chiarire se il gas serve soltanto per l’oggi o costituisce una risorsa per il domani. I prezzi dipendono anche da questo
Sugli approvvigionamenti di gas l’Europa rischia di trovarsi spiazzata da sé stessa. Nel biennio 2022-23, stanno entrando in esercizio una dozzina di nuovi rigassificatori, mentre si lavora per incrementare la capacità di importazione di alcuni tubi e terminali esistenti. Contemporaneamente, diversi paesi produttori hanno pianificato l’espansione della rispettiva capacità di liquefazione, in modo da mettere a disposizione del mercato – cioè, in primis, dell’Europa – volumi sufficienti a soddisfare la domanda. Ma quale domanda?
Tale questione è finora rimasta sottotraccia, travolta dall’emergenza e dalla consapevolezza che la sicurezza energetica dell’Unione europea non è mai stata tanto a rischio come dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Venendo meno il nostro principale fornitore, ci siamo dovuti affrettare a trovare sostituti e a spostare l’import dalle rotte tradizionali a quelle nuove. Così, siamo diventati il più importante attrattore di gas naturale liquefatto (Gnl) al mondo, con prospettive di ulteriori incrementi. Nel 2022, il Gnl non russo ha coperto oltre un quarto del nostro fabbisogno; di questo, la metà dagli Stati Uniti. E’ anche per questo che, dopo un lungo periodo di stasi, sono ripresi gli investimenti: da qui al 2026 dovrebbero vedere la luce tre nuovi treni di liquefazione (due in Texas e uno in Louisiana) con un incremento della capacità complessiva di circa il 40 per cento.
Tuttavia, se leggiamo i documenti europei – e li prendiamo sul serio – viene da chiedersi se ci sarà davvero bisogno di tutto ciò. Nel 2030, la domanda di gas dovrebbe essere tra il 30 e il 50 per cento inferiore ai livelli pre-crisi. Inoltre, gli stati membri si sono impegnati a non sostenere in alcun modo infrastrutture legate ai combustibili fossili, e la tassonomia degli investimenti sostenibili esclude esplicitamente gasdotti e terminali destinati a trasportare metano di origine fossile. Il dubbio è se, e fino a che punto, questi obiettivi di policy siano credibili, sia per ciò che significano a valore facciale, sia per le rispettive implicazioni.
Ci sono almeno due aspetti che vanno approfonditi. Il primo riguarda il modello di sviluppo delle nuove infrastrutture. Normalmente esse si basano sulla conclusione di contratti di fornitura di lungo termine tra i venditori e gli importatori, per coprirsi contro il rischio che le opere restino inutilizzate: ma i compratori europei faticano a impegnarsi a ritirare volumi consistenti per dieci o vent’anni. Dobbiamo fidarci dei target Ue oppure degli andamenti inerziali? Non è un caso se gli operatori tendono a chiedere sempre più clausole contrattuali che escludano vincoli di destinazione sul gas. Ma questo ha un costo. C’è un trade-off tra la durata dei contratti, la flessibilità e il prezzo di cessione: se vogliamo comprimere il prezzo dobbiamo spalmare i costi fissi su un orizzonte più lungo; se non siamo disposti ad assumerci questa responsabilità, dobbiamo accettare prezzi più alti.
L’altro aspetto riguarda il graduale cambio di atteggiamento dei policy-maker. Una bozza della dichiarazione congiunta dei ministri del clima dell’energia del G7 in vista della riunione del 15-16 aprile in Giappone recita: “In questa particolare contingenza, riconosciamo la necessità di investimenti upstream nel Gnl e nel gas naturale, in linea con i nostri obiettivi e impegni climatici”. Vedremo se sopravviverà ai negoziati; ma il fatto stesso che sia presa in considerazione dice molto su quanto stia mutando l’atteggiamento rispetto a solo un paio di anni fa.
Intanto i mercati mandano un messaggio chiaro: mentre le borse premiano le compagnie americane che investono nella ricerca di nuove riserve, le controparti europee viaggiano su multipli più contenuti, nell’incertezza sul modello di business che intendono (o potranno) perseguire. E il differenziale di prezzo del gas tra il Nord America (ieri meno di 10 euro/MWh) e l’Europa (45 euro/MWh) racconta la storia di un gap che può essere ridotto solo facendo incontrare l’eccesso di offerta Usa con la domanda Ue. L’Europa dovrebbe chiarire se il gas serve soltanto per l’oggi o costituisce una risorsa anche per il domani.