Ingresso storico Cinecittà, Roma, 3 marzo 2023 (ANSA) 

A Cinecittà la “fabbrica dei sogni” torna a fare profitto

Stefano Cingolani

Viaggio fra gli studi, di nuovo contesi dalle grandi produzioni. L’ad Maccanico: “Qui facciamo industria”

Il percorso non è in ordine cronologico perché il cinema è capace di annullare la freccia del tempo. E la città del cinema, la fabbrica dei sogni, sì Cinecittà, spalanca una accanto all’altra le epoche del passato come quelle del futuro, a partire dalla locanda dove Giovanni Boccaccio faceva vivere e gozzovigliare i suoi personaggi. Qui Jenji Kohan ha ambientato alcune storie ispirate al “Decamerone”, per la serie in otto puntate (regia di Mike Uppendahl) che dovrebbe uscire su Netflix alla fine dell’anno. Ricostruzione accurata, penombra, una patina di nerofumo… e gli odori. Legno, colla, cavolo nero che bolle nel pentolone. O forse no, forse è solo un’impressione, ma gli odori si sentono. E’ questo il cinema, è questa Cinecittà, emana il profumo della storia, ma sono solo i materiali di scena, di tutto quello che viene creato con il lavoro delle nostre maestranze. In pochi teatri di posa al mondo si trova qualcosa di simile”. Una sapienza artigianale che non è stata cannibalizzata dai computer, convive con gli “smart stage”, anzi si arricchiscono insieme

  

Nel matrimonio tra tradizione manifatturiera e nuove tecnologie c’è gran parte del secreto di un boom che può far tornare Cinecittà agli splendori di un tempo, agli anni 50 e 60, quelli dei grandi artisti, del neorealismo, delle commedie all’italiana, ma anche dei polpettoni mitologici. Gli anni in cui i migliori registi del mondo venivano qua. Legittimo orgoglio, con una punta di sciovinismo. E Hollywood? E  Pinewood, numero uno in Europa? Tanto di cappello, sia chiaro. Quando negli anni 30 sorse questa roccaforte italiana della settima arte, Benito Mussolini voleva portare nell’Italia fascista l’esempio americano. “Il cinema è l’arma più potente”, scandiva, e nel 1931 aveva varato una legge protezionista. Ma tutti amavano il cinema americano, a cominciare da Luigi Freddi al quale, grazie al suo amico Galeazzo Ciano, era stata affidata la direzione generale della cinematografia. Negli States aveva conosciuto David Griffith e pensava che anche l’Italia avrebbe potuto imitare “La nascita di una nazione”, l’epopea della guerra civile americana. In fondo “Cabiria”, uscito quasi in contemporanea nel 1914, aveva dimostrato l’italica maestria dietro la cinepresa ed era rimasto in cartellone a New York per quasi un anno. Così cominciò un cammino accidentato, dagli altari alla polvere e poi di nuovo in cima, un percorso che ha fatto di Cinecittà un’icona, anzi un marchio del made in Italy, come oggi si preferisce dire. Ovunque nel mondo Cinecittà è Cinecittà, senza traduzioni, non ce n’è bisogno. E oggi non è più “un luogo della memoria”, divertente e pittoresco, ma “una macchina che produce ed attrae”, dice con orgoglio Nicola Maccanico, amministratore delegato dal 2021

   

L'amministratore delegato di Cinecittà Nicola Maccanico, Roma, 3 marzo 2023 (ANSA) 

 

Non rimbomba la voce tonante di Benito Mussolini, non ancora duce, nei vicoli della Milano del primo Novecento, ricostruita per girare “M il figlio del secolo”, tratto dal romanzo di Antonio Scurati. E’ in gran parte top secret, possiamo dare un’idea senza entrare nei dettagli e ci impegniamo a rispettare la promessa. Ecco una città ancora agli albori dell’industrializzazione, dove è forte l’impronta del contado lombardo che resterà fino agli anni 50, e chi conosce i tanti volti di Milano, se lo ricorda. Su “M”, otto episodi trasmessi da Sky, sta lavorando il regista britannico Joe Wright, specializzato in trasposizioni letterarie (“Orgoglio e pregiudizio”, “Espiazione”, “Anna Karenina”, ma anche “L’ora più buia”) e Mussolini è interpretato da Luca Marinelli (“Martin Eden”), una performance impressionante a giudicare dall’unica immagine finora circolata e non solo per la mascella volitiva e gli occhi sporgenti. E’ solo troppo alto, un metro e 80, ma nel cinema esiste solo quello che l’inquadratura ti fa vedere. Dietro le facciate ricostruite con perizia certosina, dettaglio su dettaglio, ci sono infrastrutture in legno, bianche come scheletri. Il nostro viaggio a balzelloni tra le epoche ci porta nella Roma imperiale, vero gioiello della verosimiglianza, a disposizione di Anthony Hopkins, l’imperatore Vespasiano nella serie sui gladiatori, i morituri, “Those about to die”, che Roland Emmerich gira per Peacock. Poi c’è “Il Conclave”, dal romanzo di Robert Harris con Ralph Fiennes, regia di Edward Berger; Angelina Jolie con “Without Blood”; Nanni Moretti con “Il sol dell’avvenire” e altri ancora.

  

Un pienone e la domanda, soprattutto dall’estero (70 per cento), supera l’offerta. I teatri sono 19, quattro in ristrutturazione e cinque da rifare completamente. Ma non bastano, i 400 mila metri quadrati non sono sufficienti, occorre spazio e grazie ai 300 milioni di euro stanziati con il Pnrr, in un triennio Cinecittà diventerà più grande, più innovativa, più sostenibile, tre pilastri che si reggono l’un l’altro, sottolinea Maccanico. Sono in ballo i terreni adiacenti di Torre Spaccata posseduti dalla Cassa depositi e prestiti, si sta negoziando con l’obiettivo di chiudere entro l’anno. Ci sono i progetti, ci sono i finanziamenti, c’è un obiettivo ambizioso, ma ci sono anche i risultati. Il fatturato, 39 milioni di euro (la maggior parte per l’utilizzo dei teatri e delle scenografie), è cresciuto dal 2022 del 170 per cento e sono arrivati gli utili: 1,8 milioni netti in bilancio. Dunque, Cinecittà è oggi tornata al profitto. E’ questa la novità ed è anche la molla che ci ha fatto prendere la metropolitana in una assolata, ma fredda mattinata pre pasquale. Che cosa è successo? Qual è il segreto di una ripresa tanto rapida?

  

Siamo venuti non per curiosare (non  solo) tra i teatri di posa, dal mitico studio 5, vera casa di Federico Fellini, al nuovo 18, dominato da un grande schermo digitale di 350 metri quadrati, uno dei più grandi d’Europa, che sostituisce il tradizionale green screen, lo sfondo in panno verde. Nel set virtuale grazie al Led Wall gli attori sono in studio, ma in un attimo possono essere ovunque, lo sfondo cambia accompagnando il loro movimento. “E’ la nostra porta sul futuro”, dichiara Maccanico che guida con piglio manageriale Cinecittà, tornata nel 2017 allo stato e dal 2021 sotto forma di società per azioni. L’intero universo audiovisivo è percorso da una rivoluzione permanente, è caduta la vecchia barriera tra cinema e tv, grazie a internet e alle tecnologie digitali è possibile arrivare direttamente agli spettatori senza il filtro della distribuzione, nello stesso tempo la competizione diventa sempre più estesa e aggressiva anche in Europa, non parliamo dell’Asia; nemmeno Hollywood può godere del suo antico primato. “Oggi esiste una produzione circolare – aggiunge Maccanico – grazie alle piattaforme e alla serialità, quel che nasce in un paese viaggia e si diffonde ovunque molto rapidamente”. Innovazioni che distruggono il vecchio e costruiscono il nuovo. Cinecittà si era chiusa nella contemplazione del proprio passato, in questi anni ha cambiato approccio. Maccanico ha messo a frutto la propria esperienza in grandi player privati, in particolare Sky, ma c’è stato anche un sostegno da parte della politica. L’incentivo fiscale del 40 per cento è la calamita finanziaria che attrae le produzioni e s’aggiunge a quella culturale, storica, logistica: i Pinewood Studios sono fuori Londra, mentre Roma è qui, e con mezz’ora di metropolitana si raggiunge qualsiasi luogo del centro storico. Ma bisogna essere in grado di intercettare le produzioni importanti moltiplicate dalle piattaforme digitali, occorre offrire servizi sempre più sofisticati e il massimo di efficienza organizzativa. “Prima stavamo in coperta a guardare dall’altra parte. Ora abbiamo girato la prua verso il mondo e verso il mercato”, dice Maccanico. Guai a sedersi. E’ un precetto che vale per il paese nel suo insieme e Cinecittà ha fatto sempre da specchio, ha segnato il miracolo economico, ha accompagnato gli Anni di Piombo e ha rischiato di essere ingoiata dalla palude della lunga stagnazione. “L’Italia sta ritrovando una nuova centralità e Cinecittà torna grande, senza nessun  esclusivismo”.

 

Lo stato azionista è in grado di accompagnare una trasformazione tanto rapida e tumultuosa? E il cambio di governo non rischia di interrompere un cammino cominciato con altri protagonisti? Azionista unico è il ministero dell’Economia che opera insieme a quello della cultura. La politica, dunque, siede sullo scranno più alto. Maccanico è fiducioso: “Ho trovato nel ministro Sangiuliano un sincero interesse, un giusto stimolo e sostegno, e una particolare attenzione per lo sviluppo industriale. Perché deve essere chiaro che qui facciamo industria”. E l’egemonia? E l’ambizione di una cultura della destra che soppianti quella della sinistra? Il cinema, insieme alla tv, non resta lo strumento più efficace? Nella sua audizione alla Camera nel febbraio scorso, Maccanico ha visto un consenso trasversale ai progetti per la nuova Cinecittà, senza volontà di intromissione nei contenuti che restano la sostanza di questa industria molto speciale. La Corte dei Conti ha mosso alcuni rilievi che il “capo azienda” accoglie come “stimolo molto utile” per utilizzare al meglio i finanziamenti europei. Una formula diplomatica. “Sincera”, precisa Maccanico. Tuttavia esiste il rischio che la Pubblica amministrazione nel suo insieme faccia da ostacolo a programmi che obbediscono in primo luogo a una logica produttiva. Cinecittà è una spa, allora perché non fare entrare anche capitale privato? Esiste un modello che potrebbe portare più risorse salvando il controllo dell’azionista pubblico e potenziando la logica di mercato in una ottica multinazionale. E’ il modello delle principali aziende a partecipazione statale. Perché non pensare a Cinecittà come a una Eni dell’audiovisivo? “Piano, piano. Dobbiamo consolidare i risultati, portare a termine il nostro piano industriale entro il 2026. Niente voli pindarici”. E’ troppo presto per mettere in campo idee che non hanno ancora solide radici. Ci vuole una taglia adeguata (Pinewood fattura oltre 120 milioni di euro). Realismo, concretezza, come s’addice a un manager. Eppure, mai dire mai, come s’addice alla fabbrica dei sogni.

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