lo studio
Tutti i numeri della frattura commerciale tra Russia e Ue (dopo la guerra)
Fino all'inizio dell'invasione in Ucraina, Mosca rappresentava un partner economico centrale per Bruxelles e viceversa. Nel giro di un anno i paesi dell’Unione sono riusciti a cambiare tutto (i fornitori) senza stravolgere l’importazione di beni strategici. L’economia del Cremlino invece è in tilt. E presto potrebbe bussare alla porta della Cina
È stato uno sforzo gigantesco. Ma a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, si può affermare che l’Europa si è divincolata con successo da un partner commerciale di prim’ordine come fino ad allora era stato il paese di Putin. A darne ulteriore riprova è un paper di Francesco Di Comite e Paolo Pasimeni, divulgato in questi giorni dal Centre for Economic Policy Research. Lo studio dei due ricercatori italiani, entrambi membri della Commissione europea, è di particolare interesse perché si basa su un inedito insieme di dati doganali elaborati sull’asse Bruxelles-Cremlino. Traccia nel dettaglio l’andamento delle importazioni di gas naturale verso l’Ue, ma anche quelle che gli autori definiscono “dipendenze strategiche”: beni di limitata capacità produttiva domestica o materie prime che costringono i paesi dell’Unione ad affidarsi a specifici fornitori stranieri. Dal carbone ai fertilizzanti, dalla gomma sintetica al compensato. E in quasi tutti i casi, nel giro di pochi mesi la dipendenza dalla Russia è scesa drasticamente.
La panoramica evidenzia l’entità di questo cambiamento. Alla vigilia della guerra i flussi di scambio tra Europa e Russia si aggiravano sui tre miliardi di euro a settimana, con la bilancia che pendeva verso Mosca dato il maggior peso dell’export russo rispetto a quello europeo. Come già dimostrato in ambito accademico – al Foglio lo raccontava Ben Moll –, sin dal 24 febbraio 2022 l’Ue è stata particolarmente efficace a interrompere le importazioni, mentre l’embargo sul gas e altri prodotti del Cremlino ha richiesto tempistiche di adattamento più lunghe. È un trend che si riflette con chiarezza nell’analisi di Di Comite e Pasimeni, che spiegano come nel breve periodo i paesi europei abbiano accumulato un deficit commerciale bilaterale di ben 67 miliardi nei confronti della Russia. Questo, secondo gli autori, spiegherebbe in parte l’iniziale apprezzamento del rublo sull’euro e il concomitante aumento dei prezzi delle materie prime. Tuttavia, tra fine luglio e settembre 2022, l’Unione europea è riuscita a frenare l’emorragia. E poi a invertire la tendenza, grazie al blocco dell’export di combustibili fossili russi: soltanto nei primi due mesi del 2023, Bruxelles ha rosicchiato a Putin circa 16 miliardi nei differenziali di bilancio fra le due potenze – e stando alle previsioni continuerà a recuperarne. La situazione, insomma, nel medio termine si è rovesciata.
Passiamo ai singoli settori, scorporando i dati aggregati. A gennaio 2022, il 30 per cento delle importazioni di gas naturale verso l’Europa arrivava da Mosca. A marzo la quota è arrivata a toccare il 37. Poi è scesa in picchiata: oggi i paesi Ue riescono ad assicurarsi lo stesso volume di gas dei tempi pre-guerra, ma soltanto il 10-12 per cento proviene dalla Russia. Ci hanno guadagnato invece la Norvegia, gli Stati Uniti, l’Algeria, il Regno Unito, il Qatar e altri nuovi partner energetici. Diversificare funziona. L’effetto collaterale? Per le stesse quantità di gas tocca pagare di più: bloccando i gasdotti, l’Unione europea ha dovuto ricorrere a fonti alternative, come il gas naturale liquefatto, che costa circa il 46 per cento in più di quello tradizionale. Il processo di sostituzione è avvenuto secondo dinamiche analoghe anche per le suddette dipendenze strategiche. Nel 2021 quasi l’80 per cento dell’import europeo di barbabietola da zucchero era appannaggio del Cremlino: un anno più tardi è diventato il 40. E così via. Il carbone russo è calato dal 90 al 60, il gasolio dal 50 al 18, i fertilizzanti dal 50 al 30. Più in generale, scrivono Di Comite e Pasimeni, “la fornitura di 11 beni strategici analizzati su 19 è diminuita del 50 per cento o più”. Soltanto nel caso del nichel e dei combustibili per reattori nucleari Putin non ha compromesso (o anzi guadagnato al margine) quote di mercato europeo.
Si tratta nel complesso di un disaccoppiamento epocale, destinato ad avere conseguenze di lungo periodo su entrambi i fronti. La Russia ha perso una delle sue principali fonti di reddito. E non sarà facile sostituirla. Gli autori suggeriscono che “in base alla struttura settoriale del commercio la Cina potrebbe rappresentare una valida alternativa all’Unione europea, perché è uno dei principali esportatori in quelle filiere in cui l’Ue era un partner strategico della Russia”. È un’ipotesi paventata a più riprese, e che certo non sarebbe una buona notizia per la geopolitica globale. I paesi europei invece hanno evidenziato notevoli capacità di assorbimento dello shock e di successivo adattamento. Il principale punto debole della rottura con la Russia, già accennato in ambito energetico, riguarda “l’impatto strutturale sulla competitività della propria industria, data la necessità di rivolgersi a canali di fornitura di seconda scelta: se persistenti, il prezzo relativamente più alto di alcuni input chiave potrebbe comportare la perdita di quote di mercato”. Fin qui la flessibilità economica dell’occidente si è dimostrata un valore aggiunto, vedremo se lo sarà ancora una volta.