Il triangolo sì
Il triangolo sì: Cina e India rivendono all'Europa petrolio russo, e va bene così
L'Occidente ha chiuso con la Russia, ma compra da paesi "lavanderia" che hanno aumentato l'import a sconto da Mosca. Sembra una falla delle sanzioni, ma non lo è. Il price cap ha due obiettivi, ridurre le entrate del Cremlino e lasciar fluire il suo greggio sui mercati: sta funzionando
Il Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), un think tank finlandese che analizza le esportazioni russe, ha pubblicato un report – anticipato ieri dal Corriere della sera – che, sostanzialmente, afferma che l’embargo occidentale al petrolio russo viene aggirato. L’Ue e il G7 hanno vietato l’import di greggio e prodotti petroliferi dalla Russia, ma per rimpiazzarli hanno aumentato le importazioni da altri paesi esterni alla “coalizione” – come Cina, India, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Singapore – che a loro volta sono diventati i principali importatori dalla Russia. Questi paesi vengono definiti una “lavanderia” che ripulisce il petrolio russo e lo rivende sotto forma di prodotti raffinati ai paesi che hanno sanzionato Mosca.
Nell’anno successivo all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, le importazioni via mare di greggio russo in Cina, India, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Singapore sono aumentate del 140% (in termini di volume), per un controvalore di 74,8 miliardi di euro. Per giunta, dall’entrata in vigore dell’embargo dell’Unione europea, questi paesi hanno assorbito gran parte dei flussi russi via mare che prima erano destinati al Vecchio continente arrivando a rappresentare il 70% delle esportazioni di greggio dalla Russia. Contemporaneamente, i paesi della coalizione che ha imposto il price cap alla Russia hanno aumentato le importazioni di prodotti raffinati del 26%, ovvero di 18,7 miliardi di euro, dai cinque “paesi lavanderia”. Attraverso questo giro e questa triangolazione, è la tesi del think tank finlandese, i paesi occidentali e in particolare quelli europei di fatto sono autori di una sorta di “riciclaggio”: aggirano le loro stesse sanzioni e continuano a finanziare – seppure indirettamente – la macchina da guerra di Putin.
Una denuncia analoga è stata fatta qualche giorno fa dal Wall Street Journal, a proposito dei paesi del Golfo, diventati i principali partner del Cremlino nell’aggiramento delle sanzioni. Non si tratta di un’alleanza politica, ma di un’unione di comodo: visto che le sanzioni occidentali hanno sottratto alla Russia i suoi principali mercati consolidati, e visto che la Russia fatica a trovare nuovi sbocchi per il suo petrolio, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti approfittano della posizione di debolezza: acquistano il greggio e i prodotti petroliferi che la Russia vende a prezzo fortemente scontato per utilizzarli nel mercato interno, ed esportano i propri barili di petrolio e derivati a prezzi di mercato agli ex clienti russi come Italia e Francia aumentando i profitti. Le sanzioni occidentali hanno segmentato il mercato, abbattendo il valore del greggio russo di circa il 30% rispetto al Brent e dei prodotti raffinati russi come nafta e gasolio, venduti rispettivamente 60 e 25 dollari a tonnellata in meno rispetto agli equivalenti del Golfo persico, e ovviamente i petrostati della penisola arabica ne approfittano facendo arbitraggio. Tanti soldi e facili.
Ma questo significa che le sanzioni contro la Russia non stanno funzionando? Che c’è una falla nel sistema? O che i paesi occidentali, che mettono l’embargo e poi comprano indirettamente dalla Russia, sono semplicemente ipocriti? Nulla di tutto questo.
In realtà, per quanto queste triangolazioni possano sembrare contraddittorie, le sanzioni stanno facendo il loro lavoro. Inizialmente, nel sesto pacchetto di sanzioni, l’Unione europea insieme all’embargo sul petrolio russo aveva inserito anche il divieto di assicurare e fornire servizi finanziari per l’export di petrolio russo. Successivamente, in sede del G7, su impulso degli Stati Uniti quella misura è stata eliminata e sostituita con un tetto al prezzo del petrolio russo (e successivamente dei prodotti raffinati) oltre il quale scatta quel divieto. Il timore dell’Amministrazione Biden, e in particolare del segretario al Tesoro Janet Yellen, era che un divieto totale avrebbe provocato uno choc sul mercato, che avrebbe fatto aumentare i prezzi e destabilizzato le economie occidentali e anche quelle emergenti, con il rischio di alienare il sostegno delle opinioni pubbliche occidentali e dei paesi in via di sviluppo rispetto alla causa ucraina.
Pertanto, è stata preferita l’introduzione di un price cap, fissato a 60 dollari al barile, che ha due obiettivi: il primo è ridurre le entrate con cui il Cremlino finanzia la guerra; il secondo è lasciare scorrere il petrolio russo sui mercati globali. In pratica, agire sui prezzi del petrolio russo più che sui volumi esportati. Rispetto a questi obiettivi, il price cap sta funzionando. La Russia incassa meno, l’Occidente compra energia a prezzi accettabili (tanto che molti paesi, come l’Italia, hanno eliminato gli sconti sulle accise), altri stati come Cina, India e paesi del Golfo ne approfittano.
I dati mostrano un serio deterioramento fiscale per la Russia: nel primo trimestre del 2023, le entrate dall’export di petrolio e gas si sono ridotte del 45% rispetto all’anno precedente; le spesa pubblica è aumentata del 34%, trainata dai costi per la guerra. Così, secondo i dati del ministero delle Finanze russo, il deficit trimestrale è schizzato a 2,4 trilioni di rubli, pari all’82% dell’obiettivo per l’intero anno. Secondo l’Opec, la Russia sarà costretta nel 2023 a ridurre anche la produzione di circa 750 mila barili al giorno. Le autorità russe, preoccupate dal crollo delle entrate, hanno modificato i parametri di calcolo per le imposte sul petrolio per costringere le società petrolifere russe a ridurre gli sconti o pagare più tasse.
Ciò non vuol dire che tutto vada alla perfezione. Ad esempio da qualche giorno le quotazioni dell’Urals hanno superato i 60 dollari, e ci si chiede se ora si riuscirà a far rispettare il price cap o se il tetto salterà. Ci sono ragionevoli richieste di abbassare il tetto al prezzo, lo stesso think tank finlandese Crea nel report segnala come gran parte del greggio e dei prodotti petroliferi russi sia trasportata da navi di proprietà o assicurate da paesi occidentali, e che quindi i paesi della coalizione anti-russa hanno una leva molto forte per ridurre il price cap, anche se il G7 ha confermato di lasciarlo a questo livello (probabilmente a causa del rilazo dei prezzi globali dopo la decisione dell’Opec di tagliare la produzione). Recentemente l’Ofac, l’agenzia del Tesoro americano che applica e amministra le sanzioni, ha lanciato un alert su alcuni meccanismi usati per nascondere l’origine del greggio russo e vendere sopra il price cap. Bisogna quindi rafforzare i controlli per tappare le scappatoie e reprimere le truffe, i trasbordi e le manipolazioni dei documenti, come accade ogni volta che vengono imposte delle sanzioni. Ma è un altro discorso.
Le triangolazioni e l’arbitraggio dei paesi “lavanderia” che speculano sulle sanzioni alla Russia, per quanto sembri strano, non sono una falla ma sono un ingranaggio del meccanismo.