Dopo il Def
Sul lavoro, le mosse del governo hanno un filo: sono contro i giovani
Con la liberalizzazione dei contratti a termine si rischia di invertire la tendenza delle imprese a stabilizzare: un effetto che peserebbe soprattutto sulle nuove generazioni
Non è chiaro se ne abbiano piena coscienza ma nel Def il governo si è legato le mani e garantisce una decontribuzione permanente del valore di 10 miliardi dei salari fino a 35 mila euro annui. Nel Def hanno stanziato solo 3 miliardi ma sommati agli stanziamenti precedenti l’operazione assomma a poco meno di 10 miliardi in totale e comporta un aumento di circa 80 euro netti al mese in busta paga per i redditi fino a 35 mila euro (un po' meno per i livelli inferiori). Non è tutto merito di questo governo che si è limitato a continuare la strada impostata dal governo Draghi che nel 2021 e poi nel luglio 2022 finanziò la decontribuzione per quasi 3 miliardi (dopo aver speso 7 miliardi per il bonus in cifra fissa per i redditi bassi). Ma tant’è, l’effetto cumulato in busta paga è equivalente agli 80 euro del governo Renzi del 2015 e l’operazione deve avere carattere permanente e irreversibile perché trattandosi della fiscalizzazione dei contributi a carico del lavoratore è impensabile che un giorno si ritorni indietro riducendo la busta paga dei lavoratori di 80 euro mensili. Quindi con questo Def il governo si impegna a tutti gli effetti a un finanziamento strutturale di 10 miliardi che vanno ai lavoratori a basso reddito e non vanno alla flat tax e alle pensioni. Bene.
Ma la decontribuzione dei redditi bassi è il cavallo di battaglia dei governi di centrosinistra che ora all’opposizione farebbe bene a non farsi soffiare la battaglia. A parte le prime riduzioni dei contributi sperimentate dal governo Prodi nel 2007, il triennio di decontribuzione totale per i neo assunti tra il 2015 e il 2018 fu il volano della crescita di 1 milione di posti di lavoro (quella fu decontribuzione lato impresa proprio perché temporanea per 3 anni). Nel governo Gentiloni quella misura diventò permanente (e vale ancora oggi) limitatamente ai giovani under 35 per il primo contratto a tempo indeterminato. E per le donne disoccupate da 6 mesi. Per aumentare i salari di tutti e non solo dei neo assunti nel 2015 furono varati gli 80 euro in busta paga, poi divenuti 100 euro ai tempi di Gualtieri al Mef fino ai 35 mila euro di reddito. In seguito, durante il governo Draghi, gli 80-100 euro di aumento in busta paga furono assorbiti nella riforma fiscale e presero la forma tra le altre cose proprio della decontribuzione per i salari bassi che è la misura che oggi il governo Meloni sta continuando e rafforzando. Ma ancor prima di chiedere la decontribuzione i sindacati chiedevano la detassazione degli aumenti salariali per favorire il rinnovo dei contratti nazionali. Meno male che nel governo Draghi vinse la soluzione della decontribuzione invece della detassazione degli aumenti che chiedevano i sindacati sennò oggi la Meloni avrebbe buon gioco a riproporre la strampalata “flat tax incrementale” che è a tutti gli effetti una forma di detassazione degli aumenti salariali, invece è costretta a rincorrere la decontribuzione dei salari più bassi. Non da oggi il problema principale dell’Italia è sostenere i salari: troppe poche ore lavorate con contratti a termine e part time e salari troppo bassi in entrata per i giovani ma anche crescita troppo bassa durante la carriera.
Gli 80 euro e poi la decontribuzione per tutti erano la scelta giusta per sostenere i salari insieme al favore concesso alle assunzioni a tempo indeterminato per i giovani. Tanto più lo sono ora che l’inflazione colpisce duramente non solo i lavoratori precari ma la classe media. Da questo punto di vista molto miope la decisione del Ministro del lavoro di allentare i limiti dei contratti a termine. Oggi l’occupazione sta crescendo e i contratti a tempo indeterminato sono al livello massimo di sempre. Non c’è nessun motivo per dare un segnale di liberalizzazione dei contratti a termine che servono invece quando l’occupazione stenta. Nel 2022 le trasformazioni di contratti di lavoro da temporanei a tempo indeterminato crescono del 44%, pur in assenza dei forti incentivi che vi furono ai tempi del Jobs Act e della decontribuzione. Oggi i datori di lavoro temono le grandi dimissioni: i contratti a tempo indeterminato vengono offerti come elementi incentivanti le assunzioni. La scarsità di profili ricercati dalle imprese porta a stabilizzare i lavoratori per tenerli in azienda e non perdere le competenze già formate. Cosa dovranno pensare i giovani se per effetto della liberalizzazione dei contratti a termine si invertisse la naturale e positiva tendenza delle imprese a stabilizzare? Potrebbero solo pensare che il governo ce l’ha con loro e farebbero bene.