l'analisi

Le proteste del governo per il nuovo Patto di Stabilità e gli impegni del Def

Luciano Capone

La destra si lamenta delle nuove regole europee, ma Meloni e Giorgetti hanno già garantito di fare quanto chiede la Commissione prima che la Commissione lo chiedesse. Non per il "vincolo esterno" europeo, ma per l'enorme "vincolo interno" italiano che si chiama debito pubblico

La stampa di destra e il governo non hanno accolto positivamente, per usare un eufemismo, le nuove regole fiscali europee proposte dalla Commissione. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, ha reagito con disappunto al nuovo Patto di stabilità e crescita perché la nuova regola che si basa sul controllo della spesa primaria (invece dei vecchi parametri sul pil potenziale e l’output gap), in assenza di uno scorporo delle spese per investimenti, costringe l’esecutivo a una “rigorosa revisione della spesa”, inclusi gli investimenti, se non si vogliono tagliare gli investimenti più produttivi. Per la stampa di destra, invece, la nuova governance economica paralizzerà l’Italia obbligandola a correzioni di bilancio da 8-16 miliardi all’anno e impedendo così un taglio delle tasse e la realizzazione del programma del centrodestra.

 

Sono reazioni esagerate, in parte incomprensibili, che sembrano non tenere conto di un fatto: il governo si è impegnato in un piano pluriennale di bilancio che già rispetta i nuovi parametri e, anzi, per certi versi va persino oltre. E questa impostazione “prudente” e “responsabile” è stata giustamente rivendicata sia dalla premier Giorgia Meloni sia dal ministro Giorgetti. Il nuovo quadro di regole, per i paesi come l’Italia con un deficit superiore al 3% e un debito superiore al 60% del pil, prevede un piano quadriennale di aggiustamento che: riduca il deficit di 0,5 punti l’anno finché è sopra il 3%; che poi lo mantenga sotto il 3%; che porti il debito pubblico a un livello più basso di quello iniziale; che il debito mantenga una credibile traiettoria discendente. L’aggiustamento fiscale può inoltre essere più graduale, spalmato su sette anni anziché quattro, se il paese si impegna in un piano di riforme e investimenti (come accade con il Pnrr). Secondo alcune stime dei tecnici della Commissione, lo sforzo richiesto all’Italia dai nuovi parametri consisterebbe in una correzione dei conti pari allo 0,85% annuo in quattro anni che, nel caso di un piano di sette anni accompagnato da riforme concordate con Bruxelles scende allo 0,45%.

 

Si può contestare l’impostazione del nuovo Patto di stabilità per l’accentramento di poteri nella Commissione e per una sorta di politicizzazione del rientro (la critica che in maniera uguale e opposta rivolge la Germania), ma non dovrebbe essere un problema l’entità dell’aggiustamento fiscale. Perché il governo Meloni, al netto del pasticcio di ieri alla Camera sulla bocciatura dello scostamento di bilancio per le assenze della maggioranza, si è impegnato a fare persino di più. Il quadro programmatico del Def prevede una riduzione del deficit di due punti in tre anni: dal 4,5% del 2023 al 2,5% del 2026 (0,7 punti l’anno in media). Ma lo sforzo è maggiore se si considera che nello stesso arco temporale la spesa per il servizio del debito cresce di 0,8 punti. Il saldo primario, ovvero il bilancio al netto degli interessi passivi, migliora di 2,8 punti passando da -0,8% nel 2023 a +2% nel 2026 (oltre 0,9 punti all’anno medi). Anche considerando il saldo strutturale, ovvero al netto delle misure una tantum e della componente ciclica della spesa, che è il parametro più vicino alla nuova regola della “spesa netta”, nel Def il governo ha programmato una variazione strutturale di 0,9 punti nel 2024, di 0,4 punti nel 2025 e di 0,6 punti nel 2026: quasi 2 punti in tre anni.

 

Siamo quindi ben oltre l’aggiustamento di 0,45 punti l’anno stimato dalla Commissione su un piano di sette anni. Al contempo il debito pubblico, seppure di poco, scende: dal 142,1% del 2023 al 140,4% del 2026. Deficit sotto il 3 per cento, aggiustamento fiscale di 0,45 punti e debito in discesa. Tutti i nuovi criteri sono soddisfatti. Certo, con una correzione del genere non è facile realizzare il programma elettorale, fatto di aumento della spesa (pensioni) e taglio delle tasse (riforma fiscale). Ma non sono certo le nuove regole a imporre una “rigorosa revisione della spesa”. È esattamente ciò che il governo ha già previsto nel Def quando per le coperture necessarie alle sue politiche ha indicato un “rafforzamento della revisione della spesa corrente”. D’altronde è ciò che ha già fatto, correttamente, eliminando lo sconto sulle accise e, sul lato degli investimenti, bloccando la follia del Superbonus: quella è stata esattamente (e giustamente) una spending review che ha ridotto una spesa per investimenti devastante per il bilancio pubblico.

 

Tutto questo il governo lo ha fatto autonomamente, rivendicando “responsabilità”, “prudenza” e il “coraggio di prendere scelte impopolari”. E la ragione è semplice. Non è il “vincolo esterno” europeo, ma l’enorme “vincolo interno” che si chiama debito pubblico. Il paese è costretto a un sentiero di austerità perché, nonostante l’aggiustamento fiscale notevole e la crescita prevista superiore all’1% annuo, il debito scende appena di mezzo punto l’anno e resta sopra al 140%. Questo anche perché nei prossimi anni si manifesteranno gli effetti di cassa del Superbonus, che impattano sul debito e non sul deficit. È questo il vincolo che obbliga a correggere i conti, perché se il debito fosse su una traiettoria ascendente, anche in un periodo di crescita, l’Italia verrebbe punita dai mercati ben prima che dalle nuove regole europee. Per questo Meloni e Giorgetti si sono impegnati a fare quanto chiede la Commissione prima che la Commissione lo chiedesse.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali