L'editoriale del direttore
Basta balle sul lavoro. Come smontare con i fatti gli slogan dei sindacati
Per avere salari più alti serve più produttività. Per avere più lavoro occorre dare più fiducia alle imprese. Ipocrisie? Stop. Così il fronte progressista ha regalato alla destra una battaglia mica male: la creazione di nuovi occupati
C’è una cappa di ipocrisia enorme nel dibattito che si è andato a produrre negli ultimi giorni intorno al tema del lavoro. Una cappa di ipocrisia nella quale i protagonisti della discussione hanno scelto sistematicamente di rimuovere alcuni dati di realtà per nascondersi facilmente dietro l’inutile bandiera della propaganda. Lo ha fatto il governo, spacciando per storico quello che non è, ovvero l’intervento “da record” sul cuneo fiscale (trattasi, nel 2023, di interventi pari a 8,5 miliardi, 1,5 miliardi in meno di quanto stanziato dal governo Renzi e dal governo Draghi). Ma lo ha fatto soprattutto il fronte delle opposizioni, che piuttosto che indicare alla maggioranza di governo i veri limiti dell’impostazione scelta da Meloni & Co. per intervenire sui salari, ha deciso di puntare sulla carta della fuffa infischiandosene dell’agenda dei fatti. E i fatti, quando si parla di salari, quando si parla di lavoro, sono spietati, se messi in fila senza falsità.
Il primo fatto ci dice che nessun governo potrà mai intervenire con serietà sul tema dei salari senza ricordare, con fermezza, che i salari in Italia, negli ultimi anni, sono cresciuti poco perché l’Italia, a differenza del resto d’Europa, ha un problema legato alla produttività, un problema legato al nanismo delle imprese, un problema legato alla bassa istruzione dei lavoratori. Nei paesi in cui la produttività è alta, i salari sono cresciuti (il tasso medio annuo di crescita della produttività del lavoro in Italia nel periodo 2014-2021 è stato pari a +0,6 per cento, nel resto dell’Unione europea è stato pari a +1,3 per cento). Nei paesi in cui le imprese sono più grandi, i salari sono cresciuti (la presenza di micro e piccole imprese, in Italia, come riportato dall’ultimo rapporto Istat dedicato al tema, è superiore alla media europea e per le altre classi dimensionali il dato italiano si colloca sempre al di sotto della media europea ed è il più basso, per i paesi considerati nel confronto, per le classi 20-49, 50-249 e oltre 250 addetti).
E le fasce di salari che in Italia sono cresciute poco, negli ultimi anni, sono quelle legate ai profili dei lavoratori non istruiti (la differenza di salario tra i livelli d’istruzione più bassi e più alti in Italia si colloca tra i 27.806 e i 44.104 euro annui, nell’area euro tra 25.518 e 51.200 euro). Dunque, se la politica vuole davvero portare avanti iniziative finalizzate a migliorare i salari, dovrebbe guardare in faccia la realtà e dire che non ci potrà mai essere una svolta sui salari in Italia senza affrontare questi temi: la produttività che latita, il nanismo che dilaga, l’istruzione che manca. Il secondo grande tabù che riguarda molte discussioni sul tema del lavoro è che non può esistere una politica responsabile su questo fronte senza che questa riconosca che l’approccio scelto negli ultimi anni dalla piattaforma sindacale è esattamente quello da non seguire. Non staremo qui a ricordare, come ha fatto egregiamente lunedì sul Foglio Luciano Capone, cosa dicevano i sindacati quando il governo Draghi eliminò il blocco dei licenziamenti dopo la pandemia (Cgil e Uil dicevano che sarebbero state licenziate 700 mila persone, quel che è successo è che dopo lo sblocco le nuove persone assunte in Italia sono state esattamente 700 mila). E non staremo qui a ricordare cosa dicevano i sindacati (Cgil e Uil) dinanzi a molti provvedimenti economici del vecchio governo che i sindacati non hanno mai nascosto di considerare contro la crescita e contro il lavoro (salvo poi scoprire che le ultime manovre hanno contribuito a far raggiungere all’Italia una crescita nel biennio, più 11,7 per cento, superiore alla crescita mondiale).
Quello che si può dire, e che si può ricordare con un pizzico di malizia anche per evidenziare il modo in cui il fronte progressista ha scelto incredibilmente di regalare alla destra battaglie non di destra, è che uno dei grandi tabù sul lavoro riguarda una verità che prima o poi andrebbe evidenziata con forza. E quella verità è semplice: ogni volta che la politica sceglie di sfidare la piattaforma sindacale aumentando la libertà delle imprese solitamente succede che le imprese piuttosto che approfittarsi della libertà la usano per creare lavoro. E’ successo ai tempi del Jobs Act, stagione che oggi il Pd ha scelto di rinnegare nonostante quella riforma abbia avuto il merito di agevolare la creazione di quasi un milione di posti di lavoro. E’ successo durante la pandemia, quando lo sblocco dei licenziamenti, miscelato a una crescita vertiginosa, ha spinto gli imprenditori a creare lavoro. E potrebbe succedere anche oggi, grazie a un effetto virtuoso che potrebbe essere generato dalla maggiore flessibilità offerta alle imprese dal nuovo dl Lavoro, dl che permette alle imprese di avere più margini per prolungare un contratto a termine sapendo che oltre i due anni comunque non si potrà andare (significa che i lavoratori scartati dopo un anno perché non abbastanza promettenti potrebbero avere più tempo per farsi apprezzare). La flessibilità regolata, e senza eccessi e accompagnata da una serie di politiche pro crescita, senza la quale ovviamente il lavoro non si crea, è quella che ha guidato l’Italia negli ultimi anni, dal governo Renzi a quello Gentiloni passando per Draghi (e pur con questa flessiblità, il mercato del lavoro italiano rimane tra i più rigidi in Europa). Ed è una flessibilità che sarebbe curioso se la sinistra decidesse di regalare alla destra considerando i risultati che ha permesso di raggiungere: record di occupati nella storia d’Italia (superato il 60 per cento) e un livello sempre più alto di contratti a tempo indeterminato (che oggi sono l’83 per cento del totale).
Si può dire che le misure del governo Meloni, sia sul fronte fiscale sia sul fronte del lavoro, siano misure insufficienti, ma non si può dire che siano misure terribilmente di destra destinate ad aggredire i diritti dei lavoratori. A meno che la sinistra oggi non voglia considerare l’uso della flessibilità per creare lavori stabili come una misura di destra. Prima di manifestare, forse, cari sindacati, sarebbe utile ricordare che quando si parla di lavoro e di salari oltre agli slogan c’è anche la realtà.