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l'analisi

Una critica da fare al Dl sul lavoro c'è: la moltiplicazione della burocrazia. Occhio

Giuliano Cazzola

I sindacati hanno molto criticato il governo, ma non si sono accorti che nel decreto del primo maggio Meloni ha ripristinato il famigerato "causalone" che rende più difficili i contratti a termine. Un passo indietro rispetto all'èra Renzi

Quanti sostengono che il decreto del primo maggio aumenti la così detta precarietà per via delle modifiche alla disciplina del  contratto a tempo determinato non sfuggono alla seguente alternativa: o sono ignoranti nel senso che non conoscono il travagliato percorso normativo che ha interessato l’istituto negli ultimi vent’anni; oppure sono in malafede e conducono una polemica strumentale con finalità solo politiche. Poiché si presume, fino a prova contraria, che i dirigenti sindacali non ignorino le norme, è evidente la loro malafede.

La questione cruciale riguarda l’introduzione di causalità più o meno definite per poter assumere a termine e prorogare i relativi contratti. Nel 2001, fu recepita una direttiva della Ue rivolta a liberalizzare l’uso dei contratti a termine dai vincoli a cui erano sottoposti nelle diverse legislazioni nazionali (compresa l’Italia il cui ordinamento consentiva l’instaurazione di questo rapporto solo in casi tassativamente indicati dalla legge). Il legislatore, però,  non volle o non fu in grado di rinunciare a richiedere alle imprese conto delle motivazioni che le inducevano a deviare temporaneamente rispetto alle normali assunzioni a tempo indeterminato. Tuttavia, per non tornare al regime dei vincoli precedenti, fu adottata una formula generica definita il “causalone” ovvero era possibile ricorrere ai contratti a termine per ragioni  “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.

 

Proprio perché generica, la norma dava luogo spesso a un fitto contenzioso giudiziario  a fine rapporto, allo scopo di ottenere la trasformazione a posteriori del contratto a tempo indeterminato. Tranne che nei casi di lavoro stagionale, l’assumere a termine era rischioso per un datore di lavoro che poteva sempre essere portato in giudizio a conclusione del rapporto. Il governo Renzi affrontò la questione col decreto Poletti del 2014 che abolì il “causalone” e consentì la stipula e la proroga di contratti a tempo determinato “acausali” – per la stessa mansione e con lo stesso datore- per una durata fino a 36 mesi. Dopo le elezioni del 2018, la materia del lavoro viene appaltata al M5S e a Luigi Di Maio (ora divenuto il nuovo Lawrence d’Arabia), il quale, da ministro del lavoro, vara in un crescendo di ottoni il così detto decreto dignità in cui l’acausalità del ricorso al lavoro a termine era consentita per un massimo di 12 mesi, mentre le proroghe o i rinnovi fino a 24 mesi  erano condizionale da esigenze: 1) temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, o per esigenze sostitutive; 2) connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; 3) relative alle attività stagionali, e a picchi di attività. Il pacchetto delle causalità non solo era severo, ma il fatto nuovo stava proprio nella reintroduzioni, dopo i primi 12 mesi, di vincoli accertabili in giudizio. Ma che cosa è successo nella realtà? Ben presto, anche in seguito alla pandemia, ci si accorse che l’applicazione del decreto dignità creava problemi sia alle aziende sia ai lavoratori, costringendo le prime a procedere ad assunzioni di persone diverse da quelle occupate nei primi 12 mesi.

 

Le statistiche di quel periodo segnarono un crollo delle assunzioni a termine. Così le prescrizioni del decreto dignità vennero sospese nel decreto rilancio: “per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere anche in assenza delle condizioni previste nella legge”. Poi del decreto dignità si sono perse le tracce, benché Giuseppe Conte, ogni tanto, ne richiedesse la riattivazione. A questo punto, che cosa ha fatto di perverso il governo Meloni? Ha ammorbidito (?) le causalità che consentono di andare oltre i 12 mesi per arrivare a 24 (come previsto anche nel decreto dignità). Ma i sindacati non si sono accorti che il nuovo decreto ha ripristinato pari pari il famigerato “causalone” che il governo Renzi (ora ripudiato dal Pd) aveva tolto di mezzo fino a 36 mesi.

 

Nel decreto Meloni si fa riferimento alle esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, in caso di mancato esercizio da parte della contrattazione collettiva, e in ogni caso “entro il termine del 30 aprile 2024’’. In breve: al “causalone”, che lascia molti più margini di interpretazione discrezionale al giudice in caso di controversia. Ci si poteva aspettare che un governo di destra, nemico dei lavoratori, ripristinasse almeno quanto aveva stabilito a suo tempo il governo Renzi. Invece chi si aspettava l’arrivo della Thatcher ha trovato solo Claudio Durigon.

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