L'analisi
L'Irpef è più progressiva e redistributiva oggi che negli anni '70
I dati del Dipartimento delle Finanze per l’imposta sul reddito delle persone fisiche smentiscono uno dei miti del dibattito italiano. Anche l’ultimo sgravio fiscale va in direzione dell’equità
Uno dei miti più consolidati nel dibattito italiano sulle imposte sostiene che l’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, era più progressiva e redistributiva negli anni ’70 rispetto a oggi. La perdita di efficacia redistributiva sarebbe dovuta all’appiattimento della scala delle aliquote, che allora erano 32 raggiungendo il 72 per cento, mentre oggi abbiamo solo quattro scaglioni con aliquota massima al 43 per cento (escludendo le addizionali locali). Davvero si è ridimensionata la capacità dell’Irpef di redistribuire il reddito? Per rispondere non basta guardare alle aliquote più alte, bisogna anche considerare quante persone erano tassate così tanto. Secondo i dati del Dipartimento delle Finanze gli scaglioni più alti, negli anni ’70, erano quasi vuoti: nel 1979 in quello più alto con aliquota 72 per cento c’erano solo 39 contribuenti, lo 0,00016 per cento del totale, e solo 2.152 persone (0,009 per cento) ricadevano nei 10 scaglioni con aliquote dal 54 per cento in su. Considerare solo la struttura formale dell’imposta non è quindi sufficiente. Certo, i redditi altissimi pagano meno con le aliquote di oggi, ma sono pochi e con effetti molto modesti su gettito ed effetto redistributivo.
Per quanto riguarda il gettito, quante risorse in più produrrebbe oggi l’Irpef se colpisse i ricchi con le stesse aliquote degli anni ’70? Rispetto a 50 anni fa oggi si paga di meno a partire da circa 500 mila euro. Nel 2021 c’erano 48 mila contribuenti con reddito maggiore di 300 mila euro, ma non sappiamo quanti abbiano dichiarato più di mezzo milione. Ipotizziamo, sicuramente per eccesso, che siano 30 mila e che ognuno di essi abbia dichiarato 1 milione. Ebbene, il gettito perduto su questi ricchi, applicando l’Irpef di oggi rispetto a quella di 50 anni fa, sarebbe di 1,9 miliardi all’anno, poco più dell’1 per cento dell’attuale gettito Irpef, l’1,6 per cento della spesa pubblica per la sanità. Sostenere quindi che le modifiche subite dall’Irpef abbiano compromesso la sostenibilità dello stato sociale non ha senso. Anche perché il gettito dell’Irpef, in quota di pil, è passato dal 2 per cento degli inizi al 10 per cento di oggi.
Ma non ha senso nemmeno sostenere che rispetto a 50 anni fa l’Irpef sia meno progressiva e redistributiva, perché è vero il contrario. L’aliquota media (cioè il rapporto tra imposta e reddito) è diminuita per il 20 per cento più povero delle famiglie, mentre è aumentata molto per tutte le altre, compreso il 10 per cento più ricco. Quindi oggi l’Irpef redistribuisce di più il reddito rispetto agli anni ’70 – cioè la diseguaglianza diminuisce di più dopo l’imposta rispetto a mezzo secolo fa – perché la sua incidenza sui poveri è diminuita mentre è cresciuta sulla classe media e sui redditi alti, ampiamente compensando la riduzione delle aliquote marginali più alte su poche centinaia di contribuenti. Nel confronto con gli altri grandi paesi europei, l’incidenza dell’Irpef è vicina alla media per i redditi bassi ed è maggiore di molti paesi sui redditi alti, ma l’Italia si distingue soprattutto per l’incidenza elevata sulla classe media. Lo sgravio contributivo recente, che premia i redditi medio-bassi, va nella stessa direzione di aumentare la progressività del sistema.
L’Irpef ha tanti problemi, ma non quello della scarsa equità verticale formale. Due temi sono molto urgenti. Il primo è la sua scarsa equità orizzontale, cioè il diverso trattamento di redditi simili, sia per l’evasione che per trattamenti differenziati per tipo di reddito, inclusa la flat tax sugli autonomi. la base imponibile dell’Irpef è vittima di un processo di continua erosione della base imponibile che pare non avere fine. Il secondo problema è il forte carico sulle classi medie, soprattutto del lavoro dipendente. Ma la classe media è molto ampia e ogni sgravio a suo favore costa moltissimo.
Massimo Baldini è economista, Università di Modena-Reggio Emilia.