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Perché il taglio del cuneo non risolve la cronica assenza di crescita dei salari reali

Lorenzo Borga

La beffa del taglio del cuneo fiscale di cui quasi nessuno si accorge. Uno spunto di riflessione sulle scelte di politica fiscale di quasi tutti gli esecutivi dell’ultimo decennio

Quando un governo taglia le tasse difficilmente si espone a critiche in Italia. Quando lo fa peraltro tagliando il cuneo fiscale sul lavoro sui redditi medio-bassi è sostanzialmente impossibile. Ma il taglio temporaneo delle imposte deciso dal governo Meloni fino a dicembre – e poi si vedrà – può offrirci uno spunto ti riflessione sulle scelte di politica fiscale di quasi tutti gli esecutivi dell’ultimo decennio.

   

Almeno dal 2013 i temporanei inquilini di Palazzo Chigi, con poche eccezioni, hanno scelto di ridurre il cuneo fiscale ai lavoratori dipendenti. Concentrandoci sull’ultimo decennio, a iniziare è stato Enrico Letta, con 2,6 miliardi di euro di maggiori detrazioni Irpef, è arrivato poi Renzi che nel 2014 sfornò i famosi 80 euro al mese con una manovra complessiva da 9 miliardi di euro all’anno. Qualche anno dopo è stato il secondo governo di Giuseppe Conte a ritoccare la misura voluta da Matteo Renzi, estendendo la platea e arricchendola fino a 100 euro (con un costo di 5 miliardi). L’anno scorso è stato invece l’esecutivo di Mario Draghi a riformare le aliquote Irpef e tagliare alcuni punti di aliquota contributiva per i lavoratori, un maxi-intervento di oltre 10 miliardi di euro. E infine Meloni che ha potenziato gli sconti di Draghi, fino all’intervento del Decreto “Lavoro” che porta lo sconto a circa 8 miliardi nel 2023, legge di bilancio inclusa.

  

Tenendo conto che – al di fuori per ora degli ultimi tagli contributivi – tutti questi interventi sono strutturali e si sono quindi ripetuti anno dopo anno, possiamo facilmente calcolare che le minori entrate fiscali e contributive per lo Stato nell’ultimo decennio superano facilmente i 100 miliardi di euro. Tantissimi soldi, perfino se spesi in un decennio: più dei sussidi che l’Unione Europea ci ha garantito con il Next Generation Eu. Una cifra sorprendente stante la narrazione imperante in Italia sulla pressione fiscale troppo elevata e sull’incapacità dei governi di incidere sul benessere dei cittadini. Ancora più paradossale è calcolare il beneficio per il singolo contribuente. Secondo un’elaborazione di Sky TG24 un lavoratore dipendente che guadagna 15 mila euro lordi all’anno dal 2014 a oggi (in realtà da luglio, quando arriverà il nuovo sconto Meloni) si è visto aumentare la busta paga netta di oltre 180 euro al mese grazie ai vari tagli di imposte e contributi. Più di 2mila euro all’anno. Eppure, e qui sta il paradosso, pare non se ne sia accorto nessuno. Gioco facile hanno avuto esponenti e giornali di centro-destra a rispondere ai fact-checking sul “più grande taglio di tasse degli ultimi decenni” (dichiarazione evidentemente falsa della premier). Prendiamo per tutti il titolo dell’articolo di Mario Giordano sulla Verità - “Toh, tutti hanno tagliato le tasse e non ce ne eravamo accorti” – che ben riassume le repliche della maggioranza a chi ha riportato i fatti e i numeri degli anni passati.

  

Una replica che però – oltre al tono polemico – deve far riflettere, perché un fondo di verità lo ha. Nessuno se ne è accorto perché evidentemente questo sforzo mastodontico non è bastato a offrire una soluzione all’assenza cronica di crescita dei salari reali degli italiani. Secondo Istat dal 2013 – anno del primo taglio di Letta - le retribuzioni orarie lorde dei lavoratori dipendenti sono aumentate di poco meno del 7 per cento, causa (soprattutto) produttività stagnante del lavoro. Ma nello stesso periodo i prezzi sono cresciuti in Italia di oltre il 16 per cento (assumendo un’inflazione nel 2023 del 5 per cento). I conti sono semplici: in un decennio le retribuzioni hanno perso circa un decimo del proprio potere d’acquisto reale. I soldi messi in busta paga dai vari governi sono riusciti quindi – nella migliore delle ipotesi – a malapena compensare l’impoverimento dato da retribuzioni quasi ferme e prezzi sempre più cari.

  

Eppure la scelta dei governi è stata pressoché obbligata. Per evitare un tracollo economico e sociale – e per massimizzare i ritorni politici dell’anno e mezzo di durata media dei governi italiani - tutti i frutti della magra crescita del Pil sono stati ogni anno messi sul taglio delle tasse. Una strada che però ovviamente ne ha precluse altre. Se i salari reali fossero cresciuti negli ultimi trent’anni quanto hanno fatto in Germania (+25,2 per cento) e in Francia (+26,2 per cento), piuttosto che calare come accaduto da noi, i governi avrebbero potuto fare altre scelte. Investire in innovazione tecnologica, tagliare le imposte anche alle imprese, accelerare la transizione energetica con anni di anticipo, rafforzare l’istruzione e la formazione che presentano ormai enormi lacune. Uno Stato che fa lo Stato, non il sussidiario dei datori di lavoro.

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