La trattativa
Rischio default per lo scontro Biden-Trump sul tetto al debito
Entro il primo giugno gli Usa dovranno alzare il tetto all’indebitamento federale: in caso contrario milioni di dipendenti pubblici resteranno senza stipendio. Le cause di una crisi e l’accordo che manca fra democratici e Gop
Può darsi che i mercati comincino a preoccuparsi, visto l’andamento di ieri dei listini, ma finora Wall Street, la Casa Bianca e il Campidoglio sono andati su strade divergenti. La borsa stenta a credere che si arriverà al default del debito americano, anche se finora il braccio di ferro tra l’Amministrazione Biden e il Congresso a trazione repubblicana non ha portato a nessuna soluzione. Il tempo stringe, entro il primo giugno bisognerà alzare il tetto all’indebitamento federale oggi fissato a 31 mila e 381 miliardi di dollari, cifra raggiunta già il 19 gennaio scorso. In caso contrario sarà impossibile pagare gli stipendi a milioni di dipendenti pubblici (militari compresi) sia nella capitale sia nella maggior parte degli stati. Martedì scorso, dopo un’ora di accesa discussione il presidente Biden e lo speaker della Camera dei rappresentanti, il repubblicano Kevin McCarthy, si sono lasciati senza intesa.
La trattativa non è interrotta, continuerà probabilmente a oltranza. Non è la prima volta che si arriva in affanno, tra scontri e strepiti: nel 2011 lo psicodramma con Barack Obama si concluse a due giorni dalla scadenza. La costituzione dà solo al Congresso il potere di indebitarsi, il tetto è stato introdotto per la prima volta nel 1917 per finanziare la partecipazione alla Grande Guerra, nel 1939 il parlamento ha delegato il Tesoro. Da allora in poi è stato aumentato 98 volte e diminuito solo in cinque anni. Adesso si sono levate voci importanti, da prendere sul serio, come quella della segretaria al Tesoro Janet Yellen che dal G7 di Niigata in Giappone ha parlato di ”terribili conseguenze” sull’economia mondiale non solo quella americana. Il gran capo di JP Morgan spera che lo scenario peggiore venga evitato. Donald Trump punta sul tanto peggio tanto meglio, incitando i repubblicani a tenere duro anche a rischio di provocare un default che sarebbe la rovina di Biden e un lavacro per “un paese che sta per essere distrutto da persone molto stupide”. Invitato dalla Cnn a spiegarsi meglio, ha cominciato a minimizzare: “Forse non succederà niente”, comunque “è meglio rispetto a quello che stiamo facendo ora, perché stiamo spendendo soldi come marinai ubriachi. Dico ai repubblicani che sono là fuori, uomini del Congresso, senatori – ha tuonato l’ex presidente – Se non accettano tagli massicci alle spese, si dovrà fare default”.
Ci crede Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics: “Quella che sembrava inimmaginabile ora sembra una minaccia reale”, ha detto spiegando che il default scatta nel momento in cui il governo non è in grado di pagare, dalla sicurezza sociale alla bolletta della luce negli uffici di Omaha. A parte il distretto della capitale, gli stati più colpiti sarebbero la Florida, l’Ohio, la Pennsylvania, ma anche l’Alaska, il New Mexico o le Hawaii, insomma stati dove ci sono grandi basi militari. Zandi ha azzardato una previsione a proposito della perdita di posti di lavoro: i tassi di disoccupazione salgono a due cifre nel District of Columbia o in Michigan, raddoppiano anche in California, Ohio, pressoché ovunque. Il governo e gli stati potrebbero violare il tetto e garantire almeno in parte i pagamenti, ma sarebbe una misura temporanea foriera anch’essa di conseguenze negative. In ogni caso, se si arriva alla data fatidica senza accordo, i mercati finanziari abbandonerebbero il loro benign neglect, comincerebbero a crollare i titoli di stato, scenderebbe il valore del dollaro, anticamera del panico.
Ma come stanno i conti pubblici? Nell’anno fiscale 2022 il governo federale ha incassato 4.900 miliardi di dollari e ne ha spesi 6.270 con un disavanzo netto di 1.380 miliardi, il più alto dall’inizio di questo secolo. Per 22 anni il bilancio è sempre stato in deficit con l’eccezione del 2001. Se guardiamo alle singole voci, circa il 60 per cento è dovuto ai vari programmi di sicurezza sociale, il 15 per cento alla difesa e il resto sono spese discrezionali di vario genere. Il fardello è triplicato a partire dalla crisi finanziaria del 2008-2010, poi si sono aggiunte le spese militari e i tagli alle tasse di Bush e Trump. Il debito sul pil è al 130 per cento, numero cinque al mondo dopo Giappone, Venezuela, Grecia, Italia. C’è una via d’uscita, ma sarebbe davvero eccezionale: il ricorso al 14esimo emendamento della costituzione che sancisce “la validità del debito pubblico autorizzato per legge”, anche senza l’ok del Congresso. Può davvero farlo un presidente in condizioni ordinarie? E un presidente debole come Biden? Gli studiosi sono divisi, ma forse Trump spera di arrivare a questo punto mettendo con le spalle al muro il suo acerrimo nemico.