L'analisi
Il bivio del non profit, tra organizzazione e disintermediazione
Più associazioni di volontariato e meno volontari: i dati Istat interrogano gli enti promotori e riaprono un dibattito centrale per il futuro del paese. Come sta cambiando il Terzo settore
Lo potremmo definire un dato da contropiede. La rilevazione Istat dei giorni scorsi secondo la quale il numero dei volontari in Italia tra il 2015 e la fine del 2020 è diminuito del 15,7 per cento a suo modo contraddice le narrazioni correnti sulla generosità degli italiani e la loro crescente predisposizione ad aiutare il prossimo. La misurazione fa parte di un più ampio report dell’Istituto di statistica che ha censito il mondo del non profit e ha messo nero su bianco il suo rafforzamento organizzativo e relazionale. Per farla breve le organizzazioni aumentano di numero, crescono di peso e di rapporti con gli stakeholder ma la materia prima (i volontari) è in calo. Qualche dato può essere utile per fotografare questa contraddizione: gli enti non profit censiti sono più di 363 mila e sono cresciuti dell’8,1 per cento nei cinque anni presi in esame dalla rilevazioni dell’Istat; i dipendenti sono 870 mila e anche in questo caso c’è il segno più (10 per cento); ma per l’appunto i volontari sono scesi a poco meno di 4,7 milioni con la diminuzione di cui sopra. Chi dona il proprio tempo alle associazioni, fondazioni, cooperative sociali del terzo settore è per il 57,5 per cento uomo, per il 50 per cento vive al nord e le aree di intervento che lo attirano di più sono l’attivismo ambientale, le attività di ricreazione e di socializzazione seguite dalla filantropia e dalla cooperazione internazionale.
Che l’Istat abbia generato un contropiede lo testimonia il dibattito che si è aperto su Vita.it, il portale del terzo settore, che ha immediatamente fatto proprio il suono del campanello d’allarme e ha provato a indagarne le cause più profonde. Secondo Paolo Venturi e Flaviano Zandonai il dato è addirittura “clamoroso”, può indurre a chiedersi se sia finita “l’età dell’oro” del non profit anche se il tutto si può spiegare in parte e in chiave contingente – lo suggerisce lo stesso Istat – con il distanziamento imposto dalla pandemia. Venturi e Zandonai elencano una serie di motivi che possono aver generato la fuga dei volontari e li rintracciano principalmente nel calo demografico che incide sulle generazioni più giovani/più disposte a donare tempo e nelle disuguaglianze crescenti che allontanano le persone per mancata disponibilità di tempo. Ma introducono poi una considerazione più di lungo periodo: siamo in presenza, forse, di una disintermediazione dell’impegno e delle cause sociali che si spiega anche con l’uso del digitale. Il volontario 2.0 si muoverebbe in sintonia con la tecnologia mentre le organizzazioni per il 20 per cento sono rimaste fuori dal perimetro dell’innovazione e addirittura per un altro 29 per cento nutrono una forma di idiosincrasia nei confronti del digitale. E qui la contraddizione si fa ancora più ampia perché la vita delle organizzazioni non profit sembra essere più professionale di cinque anni prima, tanto da aver consentito “un salto di scala” nelle relazioni istituzionali grazie a una nuova capacità di apportare risorse proprie nel “programmare e progettare”.
La divaricazione individuata da Venturi e Zandonai tra strutture e singoli la si può validare con un’altra varietà di considerazioni: a) la professionalità delle ong è sempre maggiormente riconosciuta e alcune di loro agiscono come veri piccoli ministeri degli esteri grazie al patrimonio di relazioni internazionali e di reputazione che si sono conquistate sul campo; b) durante la pandemia il non profit ha svolto un ruolo di supplenza delle istituzioni stanche e paurose – esemplare il caso di Milano – e si è conquistato sul campo i galloni da “comandante”; c) secondo l’ultima edizione dell’Italy Giving Report che fotografa gli anni dal 2020 al 2022 gli italiani che hanno fatto almeno una donazione sono saliti al 55 per cento nel 2022 rispetto al 35 per cento dell’anno precedente e il valore totale nel 2020 è stato di 6,8 miliardi (+19 per cento sull’anno precedente).
A conferma della tendenza alla disintermediazione dell’impegno sociale è arrivato poi un intervento di Riccardo Bonacina, che riportando gli input di una più recente indagine condotta in territorio toscano segnala come il 20,8 per cento degli intervistati si dichiara “potenziale volontario” ma solo il 7,1 per cento è pronto a operare in un ente del non profit. Il 37 per cento per dimostrare concreta solidarietà verso i suoi simili preferisce alla fine una modalità non strutturata piuttosto che una sorta di militanza. Bonacina sostiene che l’indagine Istat centrata sulle sole associazioni non coglie tutte le dimensioni del fenomeno del volontariato, anche individuale e temporaneo. “Nello stesso 2020 c’è stata una call della Croce Rossa per un impegno temporaneo che ha ricevuto 60 mila risposte”. La conseguenza è che la domanda di volontariato cerca oggi meccanismi di coinvolgimento più mobili e le persone non fanno propri i valori delle organizzazioni, come accadeva in passato. “Non c’è più il cittadino attivo che inizia a cooperare in un’organizzazione e rimane legato ad essa a vita. I volontari non sono più proprietà esclusiva di un’associazione, si muovono in maniera indipendente. Chi decide di impegnarsi può migrare dall’una all’altra e le cause sociali che sposa possono essere diverse.
Può donare il sangue all’Avis, frequentare un canile e magari fare la spesa per gli anziani del suo quartiere”. Resta però la domanda sul perché il legame tra persone e organizzazioni non profit si diluisca: è solo una modalità organizzativa e tecnologica oppure c’è un mutamento di fondo che vede l’impegno sociale trasformarsi in qualcosa di prevalentemente emotivo e legato solo a una contingenza specifica? E la professionalizzazione delle associazioni, necessaria per rispondere con efficacia ai bisogni, non può aver ridotto di per sé lo spazio a disposizione dei volontari-fai-da-te privi di una formazione adeguata? Di sicuro avendo impostato Vita il dibattito in una chiave aperta e non preventivamente rassicurante la rilevazione dell’Istat ha tutte le chance di scuotere (e mobilitare) il mondo del non profit: in primissima istanza per evitare l’ampliamento del solco tra professionalizzazione e primo impegno, in secondo luogo per recuperare almeno in parte il gap digitale e, più in generale, per riannodare i fili con la società e il potenziale inespresso di volontariato. Ma la strada è lunga e non priva di insidie. Senza sangue nuovo che fluisce dal basso si riuscirà a garantire tutta una serie di servizi inclusivi di base (dalla cura “minima” degli anziani ai bambini da portare in montagna o al mare) che non possono, per ragioni di costi, essere professionalizzati?