oltre le proteste
Nel caos degli affitti c'è anche una responsabilità di Cgil & co. Numeri da studiare
I sindacati in tenda e l’incapacità di considerare il lavoro degno a ogni latitudine
L’Istat stima che nell’ultimo decennio circa un milione e centomila meridionali abbiano lasciato il comune di residenza per trasferirsi in comuni dell’Italia centro settentrionali. Poco più di seicentomila avrebbero fatto il percorso inverso, talché nel complesso il Mezzogiorno avrebbe perso, a seguito delle migrazioni interne, poco più di cinquecentomila residenti. Per converso, il centro-nord avrebbe – grazie ai flussi migratori interni – bilanciato i deflussi di residenti centrosettentrionali verso l’estero. Il fenomeno viene, nel Mezzogiorno, vissuto come una emergenza drammatica. Un continuo drenaggio di risorse umane in grado di privare il Mezzogiorno del proprio futuro. Tanto da indurre alla definizione di un incentivo specifico – denominato “Resto al Sud” – deputato a sostenere la nascita e lo sviluppo di nuove attività imprenditoriali e libero professionali (che, per chiarire i termini del problema, fra il 2018 ed il 2021 ha favorito la nascita di 7 mila – diconsi 7 mila - iniziative imprenditoriali).
Ciò nonostante, la condizione del mercato del lavoro nelle diverse circoscrizioni italiane segnala, con una certa nettezza, come l’Italia non sia solo caratterizzata da un problema di mancata corrispondenza (mismatch) in termini di qualifiche fra domanda ed offerta di lavoro ma anche da una significativa mancata corrispondenza anche a livello regionale. Detto in termini più semplici, sono ancora troppo pochi i meridionali che lasciano il Mezzogiorno per trasferirsi nel centro-nord (il che è confermato dal fatto che i tassi migratori interni italiani sono ben al di sotto della media degli altri paesi sviluppati). Del resto, l’aneddotica che quasi quotidianamente ci viene offerta dai media ci racconta proprio di imprese centro-settentrionali alla ricerca spasmodica di forza lavoro e per converso di lavoratori meridionali alla ricerca altrettanto affannosa di un posto di lavoro. Non è una novità. Già qualche anno fa – poco prima della emergenza pandemica – l’OCDE segnalava, in un rapporto sul mercato del lavoro italiano, l’abnorme livello delle disparità territoriali in molti degli indicatori del mercato del lavoro.
Migrazioni interne della entità che osserviamo non sono indipendenti dalle uniformità presenti nel mercato del lavoro, non corrispondenti ai divari territoriali di produttività e sulle quali non sembra ci sia la volontà o le condizioni per intervenire (se non in misura trascurabile). Migrazioni interne significativamente più ampie di quelle osservate potrebbero contribuire – e forse non marginalmente – a sostenere i tassi di crescita della produttività che da decenni sono uno dei principali punti di debolezza del paese. Un obbiettivo che dovrebbe essere interesse di tutti perseguire ma che viene ostacolato, per un verso, dalla presenza di politiche sociali che rappresentano un freno oggettivo e sostanziale alla mobilità territoriale (ivi incluse le controproducenti, più che inesistenti, politiche formative) e, per altro verso, dalla altrettanto oggettiva assenza nel centro-nord del paese delle condizioni necessarie per rendere possibile un grado diverso e più elevato di mobilità territoriale.
In primis, la coerenza fra i livelli abitativi e i livelli dei canoni di affitto delle abitazioni. In questo senso, la protesta degli studenti universitari è la spia di un problema molto più ampio i cui elementi essenziali sono stati descritti da Carlo Stagnaro sull’Huffington Post, ripresi ieri dal direttore di questo giornale e sui quali, quindi, possiamo anche non tornare. Detto in altri termini, non ci porterebbe molto lontano pensare, come si sta in buona misura facendo, che la questione sia derubricabile al tema, serio ma pur sempre contenuto, dell’edilizia universitaria. Con buona pace degli studenti universitari (ai quali abbiamo stupidamente dato l’università sotto casa e che oggi, ovviamente chiedono, la casa sotto l’università), essa, infatti, è più ampia e ha caratteri che richiedono di andare oltre i puri e semplici stanziamenti per l’edilizia universitaria e che impongono di modificare la struttura di incentivi che spesso e volentieri rende oggi conveniente destinare il patrimonio edilizio ad utilizzi diversi dall’affitto. Parliamo – riprendendo le parole dell’Ocde – non già di prezzi calmierati o di invasive forme di regolamentazione (che sono la fonte del problema e non la sua soluzione) ma di politiche fiscali e sociali in grado rendere conveniente ciò che spesso non lo è. Politiche fiscali che, si noti, non necessariamente dovrebbero essere indirizzate ai potenziali affittuari (ai meridionali decisi a cogliere le opportunità presenti nel Centro-nord) ma anche – se non forse soprattutto - alle imprese invitandole a contribuire in prima persona alla definizione delle condizioni necessarie per rendere possibile una maggiore mobilità interna.
Un sindacato che volesse veramente rappresentare i suoi iscritti avrebbe da tempo piantato le tende nelle piazze principali del Veneto o della Lombardia per chiedere, con forza, politiche in grado di consentire ai lavoratori di cogliere le opportunità dove si trovano. Perché il lavoro è degno, a tutte le latitudini. Ma la sensazione è che il sindacato italiano abbia tutt’altre priorità.