Innovazione, atto primo. La sfida comincia dalla scuola
Studenti più preparati e più abituati a una sana competizione saranno adulti più in grado di cogliere le opportunità e di provare a innovare. Fondazioni comunali per valorizzare il merito e differenziare l’offerta. Idee
Innovazione, invenzione, imprenditorialità, crescita: sono nomi di cose diverse, ma tutte legate tra loro. L’innovazione non arriva su ordinazione ma è il portato di una straordinaria e continua serie di esperimenti, “setacciati” dal libero mercato.
Un’invenzione può dar luogo a un’innovazione che un imprenditore può sfruttare producendo crescita: non deve. Può. Al converso, una nuova impresa, se sopravvive, produce sempre innovazione e sovente crescita.
L’Italia attraversa oggi, ancora una volta, una fase delicata, asfittica: in termini di prodotto pro capite è ancora, unica tra le grandi economie europee, a restare al di sotto del corrispondente dato degli anni precedenti la Grande Recessione. Non riusciamo a ridurre questa distanza: così è fin dell’Unità. Con una sola eccezione: il quindicennio 1947-1964, non per nulla passato alla storia come miracolo economico. Le ragioni di quel miracolo sono su livelli diversi. Per stare alle considerazioni di carattere economico, in quegli anni si espresse in Italia una domanda di beni, specie di consumo durevole, che si era sviluppata in tutto il mondo prima e durante la guerra, ma da cui, con la politica di autarchia e poi con la guerra, eravamo rimasti esclusi. Dal lato dell’offerta, con la fine della dittatura fascista era stata restituita agli italiani, non solo alla classe dirigente, la libertà di esprimersi anche a livello economico, cioè di provare, riuscire e fallire. E insieme si era ritrovata la coscienza che, facendo leva sullo spirito di iniziativa e la volontà di riscatto, l’Italia poteva risorgere dalle macerie della guerra.
“Un miracolo non fa un santo”: è il titolo dello studio di prossima pubblicazione in cui Nicola Rossi indica le ragioni culturali e politiche che, anni del miracolo a parte, spiegano l’attitudine riluttante degli italiani rispetto al modo di essere proprio delle economie di mercato, alla concorrenza tra imprese e tra persone che ne fanno parte. E lo fa studiando la correlazione tra comportamento dell’economia e demografia di impresa, cioè quante imprese nascono, quante muoiono, a quante viene impedito di fallire. Nel mercato concorrenziale, ogni impresa nasce da un’innovazione: la demografia è quindi un indicatore della vivacità delle innovazioni.
Da dove deriva questa attitudine “circospetta e prudente se non proprio riluttante”? D’accordo con l’autore, crediamo che essa abbia una determinante culturale. Le istituzioni economiche di un paese sono profondamente influenzate dalla sua cultura. L’economia di mercato è anzitutto una “cultura”: un insieme di idee su ciò che gli individui possono o meno legittimamente e opportunamente fare. Un insieme di idee da cui dipende anche la capacità di individuare occasione di innovazione e trasformarle in progetti di impresa.
Non è questa la sede per chiarire quali sono, a nostro avviso, le radici della nostra (assenza di) cultura d’impresa e innovazione. Vogliamo però provare una correlazione tra la scarsa propensione all’innovazione, e quindi alla crescita, e la condizione della scuola.
E’ lì infatti (non c’è nemmeno bisogno di spiegarlo) che si forma il capitale umano e si accumula il capitale sociale che sono alla base dal progresso. E’ lì che si deve valorizzare il merito e superare così il “familismo” che è a un tempo causa e conseguenza dell’assenza di dinamismo. E’ lì che si formano gli atteggiamenti individuali e sociali da cui dipende la rotta di un paese, tra cui anche la propensione a essere parte del processo di innovazione. Non a caso, almeno a parole l’investimento in formazione viene indicato come l’unico modo sicuro per aumentare la crescita di un paese.
E’ certamente forzato sostenere che la crescita del 1947-1964 fu a opera di persone che erano state educate nelle scuole della riforma Gentile. Non lo è però sostenere che la mancata crescita degli anni successivi è stata e continua sempre più a essere dovuta anche al disastro di un Sessantotto che da noi, e forse solo da noi, ha superato i propri obiettivi e si è incancrenito in una sindacalizzazione dell’offerta scolastica senza paragoni rispetto alle altre strutture amministrative.
Si possono eliminare i confronti tra studenti o tra insegnanti. Ma non si possono ignorare i risultati dei confronti tra paesi. I test Pisa ci confinano tra paesi di cui crediamo essere superiori per storia, cultura, ricchezza; il numero di studenti non in grado di comprendere e restituire un testo in italiano è imbarazzante. Eppure continuiamo a eliminare, se non il merito, la valutazione dal vocabolario scolastico. Periodicamente, torna l’idea di togliere i voti alle superiori (mentre sono stati già tolti alle elementari). I test Invalsi, se proprio non li si può eliminare, sono privi di valore. Agli insegnanti è di fatto impedito fare progressione di carriera. Docenti o discenti, nel ministero dell’Istruzione e del Merito, il merito non li dovrà differenziare. E per evitare tentazioni, non dovrà neppure essere misurato.
Però, finita la scuola, i ragazzi entreranno in un mondo retto dalla concorrenza, dove beni, servizi, lavoro compreso, vengono confrontati e scelti per il loro valore relativo. Saranno quindi impreparati all’appuntamento con il lavoro, se non con la vita.
Se vogliamo parlare di innovazione, dunque, non possiamo che partire dalla scuola. Perché studenti più preparati e più abituati a una sana competizione saranno anche adulti più in grado di cogliere le opportunità e di provare a innovare anche loro, contribuendo alla crescita per tutti.
Di quale innovazione ha bisogno la scuola? Spesso, quando si affronta questo argomento, ci si limita a pensare all’innovazione di prodotto.
Anche il Pnrr ha una linea di investimento dedicata all’adattamento delle scuole all’innovazione e alla didattica digitale: nuove aule “intelligenti”, laboratori, strumentazione digitale, etc.
Invece, l’innovazione di cui la scuola ha bisogno è di processo. I principali problemi dell’offerta scolastica sono due: la lentezza nell’aggiornare i curricula alla domanda di competenze che proviene dalla realtà economica da un lato; la necessità di garantire la competenza del personale scolastico. Dando quindi ai dirigenti la facoltà di scegliere gli insegnanti che giudicano adatti e di “restituire” quelli che risultino non esserlo. Due problemi che vengono da un’unica matrice: il monopolio dell’offerta. E’ a via di Trastevere che si decide, per tutta l’Italia, chi e cosa deve insegnare.
Come garantire ai nostri figli di frequentare scuole all’altezza del dichiarato diritto all’istruzione, in un sistema che sia davvero meritocratico, se l’offerta didattica è monopolio statale, sia in termini di personale che di curricula?
Una riforma integrale si schianterebbe su ostacoli sindacali insuperabili.
Anzi, proprio la dimensione politica del tema suggerisce che si cerchino tentativi dal basso, magari sperimentali. Uno, da sempre caldeggiato dall’Istituto Bruno Leoni, è quello di una sperimentazione delle scuole libere, per la quale hanno già detto tutto Andrea Ichino e Guido Tabellini.
Un’altra ipotesi è quella delle scuole civiche: fondazioni di diritto privato partecipate dai comuni. In questo modo, i vantaggi di una vera autonomia di reclutamento e organizzazione si sommerebbero alla garanzia del diritto allo studio a costi equiparabili (di sicuro non superiori) a quelli del sistema statale. Difatti, la fondazione opererebbe con gli strumenti tipici del diritto privato, ma il finanziamento sarebbe pubblico, con costi che, se la formula dovesse essere generalizzata, potrebbero essere trasferiti dallo stato senza superare, e forse persino anzi risparmiando, i costi attuali. L’iniziativa erode il monopolio dell’offerta scolastica mantenendo però il sistema dell’istruzione pubblica, e quindi senza suscitare resistenze ideologiche.
In Costituzione c’è un principio relativamente recente, tanto importante quanto già dimenticato: quello della sussidiarietà. Compiti e funzioni amministrative è bene che siano svolti dal livello più vicino alle persone, quando non possano essere loro stesse ad adempiervi. Ed è bene perché la prossimità ai cittadini e ai diretti destinatari consente una maggiore consapevolezza dei bisogni e un maggior controllo dei servizi, costituisce un incentivo a fare bene e offre una diversificazione che può stimolare una virtuosa competizione tra amministrazioni.
Scuole gestite da fondazioni comunali potrebbero essere un tentativo di far quadrare il cerchio: poter valorizzare il merito e differenziare l’offerta e, al tempo stesso, restare in una gestione pubblica, ma di prossimità, del servizio.
Chi paga? Ovviamente non i bilanci comunali, già stressati da mille impegni. La finanza pubblica dovrebbe “girare” ai comuni quello che risparmia per studenti a cui non è lei a fornire educazione. Determinare il trasferimento sarebbe un’operazione semplice. Per provvedervi servirebbe un dispositivo di legge: sarebbe l’unico provvedimento necessario per mettere in moto un meccanismo che porterebbe innovazione nel sistema scolastico. Una determinante essenziale per far crescere il paese.