l'ora dei capitali coraggiosi
La vera competizione con Macron si gioca sulla conquista degli imprenditori. Appunti per Meloni
Le Davos macroniane. Da sei anni, ogni anno, il capo dell'Eliseo convoca a Versailles i principali investitori stranieri presenti in Francia per attrarre, rassicurare, dimostrare di avere a cuore la crescita almeno quanto una prima serata su Rai Tre. Offrendo loro competenza e stabilità. E noi?
Di questi tempi, lo sappiamo, non è facile osservare la traiettoria di Emmanuel Macron con lo sguardo allegro e spensierato di chi dice, dandosi di gomito: “Ehi, guardate cosa fa la Francia per risolvere problemi simili ai nostri, guardate come sono bravi, guardate come sono decisi, guardate come sono efficienti, che cosa stiamo aspettando a fare come loro?”. Non è facile perché la Francia di Macron, ormai da mesi, è spesso in ostaggio dei manifestanti, desiderosi di sabotare la sacrosanta riforma delle pensioni della Francia. E non è facile perché le performance economiche dei francesi – la Francia cresce meno di quanto fa l’Italia, crea occupati in misura inferiore rispetto a quanto fa l’Italia e produce inflazione a un ritmo superiore dell’Italia – sono spesso peggiori rispetto a quelle del nostro paese. Eppure i resoconti delle lunghe chiacchierate avute da Macron e dai principali ministri del governo francese lunedì scorso a Versailles con i duecento imprenditori internazionali, che il presidente francese ha cercato di sedurre per farli investire ancora di più nel suo paese, sono lì a suggerirci una domanda semplice, riassumibile in quattro lettere: e noi?
Sono sei anni che Macron convoca ogni anno a Versailles i principali investitori stranieri presenti in Francia, mettendoli uno di fronte all’altro, presentando loro tutte le norme di attrazione presenti nel paese e offrendo loro per una giornata intera tutto il sostegno del governo, e sono sei anni che i risultati delle Davos macroniane portano questi risultati, facilmente ricavabili dal sito dell’Eliseo. Complessivamente, si legge, dalla prima edizione nel 2017 alla quinta edizione del 2022 le Davos di Macron hanno attivato 6.910 progetti d’investimento dall’estero, hanno contribuito a creare e a mantenere 182.900 posti di lavoro, hanno permesso alla Francia di essere nel 2022, secondo una classifica di EY, il paese europeo più attraente per gli investimenti stranieri per il quarto anno consecutivo e hanno generato un numero di investimenti così distribuito nel tempo: 6,5 miliardi tra il 2017 e il 2020, 3,5 miliardi nel 2021, 6,7 miliardi nel 2022 e ulteriori tredici miliardi annunciati da Macron nel vertice di lunedì.
Macron, lunedì, ha identificato la promozione dell’industria a basse emissioni di carbonio come una priorità strategia per l’elaborazione di policy capaci di attrarre investimenti e nel giro di poche ore, come raccontato ieri da Reuters, ha potuto annunciare risultati interessanti. Un investimento da 5,2 miliardi di un produttore taiwanese di batterie per auto nella città portuale settentrionale di Dunkerque, che Macron ha annunciato venerdì. Uno stabilimento di componenti per batterie da 1,5 miliardi di euro sempre a Dunkerque in una joint venture tra il gruppo cinese XTC e la società francese Orano. Un investimento da 906 milioni di euro di Ikea da realizzare entro il 2026. Un investimento da 500 milioni annunciato da Pfizer per espandersi in Francia nello stesso periodo. Un investimento analogo da 400 milioni di euro della britannica. Un rafforzamento della presenza di Morgan Stanley in Francia, che passerà dai 200 dipendenti di oggi ai 500 del 2025.
Racconta al Foglio un importante imprenditore italiano, presente lunedì al vertice francese: “Funziona così. La Francia, in questi giorni, vende se stessa, spiega quello che fa, dà conto di quello che ha fatto, mostra la sua visione, chiede alle imprese di cosa hanno bisogno, mette ogni singolo ministro a disposizione di ciascun imprenditore, elenca le norme di defiscalizzazione elaborate ogni anno per attrarre nuovi investimenti e offre ai suoi interlocutori non soltanto l’arma della competenza sui temi che ci riguardano, non soltanto l’arma delle lingue straniere che spesso difetta ai vertici dei nostri governi ma anche un’altra arma difficilmente eguagliabile per molti paesi europei: la stabilità”.
“Vieni qui e sai che ogni anno potrai confrontarti con lo stesso ministro con cui ti eri confrontato l’anno prima. E vieni qui e capisci che vi è un paese che ha compreso che in un momento in cui la competizione è divenuta ancora di più globale, e in un momento in cui vi è un gigante come gli Stati Uniti che ha messo sul tavolo 430 miliardi di dollari per ridurre le emissioni di carbonio, incrementare la produzione e la manifattura interna, occorre mostrare con chiarezza agli investitori qual è la direzione di un paese”.
Morire di invidia per la capacità mostrata da Macron nel riuscire a far sentire gli investitori stranieri spesso a casa propria anche fuori dal proprio paese (spesso, non sempre, chiedere per credere a Fincantieri presa a calci nel 2021 dalla Francia per la costruzione del polo di Saint-Nazaire) è un sentimento naturale se si sceglie di osservare il modo in cui la Francia macroniana è riuscita in questi anni a far sistema tra gli imprenditori. Ma se si osserva con maggiore attenzione quelle che sono le caratteristiche dell’Italia di oggi – un paese con pochi ministri in grado di sostenere conversazioni in inglese, d’accordo, ma tutto sommato stabile, con una maggioranza forte, una prospettiva di lunga durata, una crescita economica sostenuta, un’occupazione in miglioramento, un’inflazione non fuori controllo, una mole mostruosa di investimenti pianificati dall’Unione europea da qui ai prossimi cinque anni – è facile comprendere che al nostro paese basterebbe poco per vendere bene se stesso, per attrarre capitali e fare quello che Macron ha fatto con gli investitori stranieri senza dover neppure consigliare agli imprenditori giubbotti anti sommosse per uscire da Versailles e passeggiare tra le strade di Parigi.
In sintesi: risposte veloci, efficienza del governo, rispetto degli impegni presi, atteggiamenti volti a mostrare affidabilità e volontà della politica di considerare gli investitori stranieri non come degli invasori da combattere ma come degli alleati da sedurre. E’ possibile che leggendo i nomi delle aziende italiane convocate all’Eliseo vi siano stati esponenti del governo preoccupati per l’atteggiamento “predatorio” portato avanti dalla Francia nei confronti del nostro paese. Ma più che chiedersi cosa potrebbe fare l’Italia per impedire alle imprese italiane di cercare in Francia le opportunità che non trovano in Italia, sarebbe utile iniziare a portare avanti anche con le imprese francesi – la Francia, per capirci, è il primo investitore in Italia con uno stock pari a 74,3 miliardi l’anno, nonché il primo datore di lavoro stranieri in Italia, con 290 mila persone impiegate, meno una al San Carlo di Napoli – lo stesso approccio portato avanti dalla Francia con le grandi imprese italiane: attrarre, sedurre, rassicurare, convincere, dimostrando di avere a cuore la difesa di una politica pro crescita almeno quanto si ha a cuore la difesa di una prima serata su Rai Tre. E’ ora di risposte. E’ ora di osare. E’ ora di una Davos italiana, senza giubbotti anti sommosse. La vera gara con Macron – più che su chi ce l’ha più lungo, il curriculum sull’immigrazione – in fondo, oggi, si gioca tutta qui.