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L'analisi

Occupati da record. Spunti da un'Italia che la Cgil non vede

Dario Di Vico

Il mercato del lavoro non è un prato di fiori ma i dati dell’Istat mostrano un paese che sfugge all’Indignato collettivo. Record di contratti a tempo indeterminato. Il segreto? Fidarsi delle imprese. Appunti per ripartire

Nessuno nega che circa 3 milioni di contratti a tempo determinato costituiscano uno stock di lavoro precario che debba preoccupare sia chi governa sia i principali attori sociali ma questa giusta attenzione va conciliata con l’analisi delle reali tendenze di flusso del mercato del lavoro. E ieri l’Istat ci ha segnalato che ad aprile 2023 c’è stato un nuovo aumento degli occupati (+48 mila, pari allo 0,2 per cento). Il dato ancor più intrigante è che quest’aumento in realtà è la somma algebrica di un incremento ancora più sostanzioso dei contratti a tempo indeterminato (+74 mila) e una diminuzione dei flussi di nuovi contratti a tempo determinato calati in un mese di 30 mila. Finora abbiamo parlato di confronti mese su mese, aprile su marzo ma se ci spostiamo al tendenziale, ovvero al paragone sui 12 mesi, il numero dei posti di lavoro è cresciuto addirittura di 390 mila unità e, come nel caso precedente, a trainare sono i posti fissi aumentati di ben 468 mila unità a cui vanno detratti 149 mila contratti precari. A far quadrare i conti restano da annotare 71 mila lavoratori autonomi in più da aprile ’22 ad aprile ’23. L’insieme di questa dinamica porta a 23,446 milioni il totale degli occupati e migliora tutta una serie di indicatori. Il tasso di occupazione è salito al 61 per cento, quello di disoccupazione è sceso al 7,8 per cento e il tasso di inattività è anch’esso calato al 33,6 per cento. Gli incrementi di occupati riguardano sia uomini sia donne e tutte le classi di età a eccezione della fascia 35-49 per effetto della dinamica demografica negativa.

 

L’interpretazione che anche nel recente passato è emersa, a proposito di questa distanza tra stock e flussi, parla di una tendenza alla stabilizzazione della forza lavoro presente nei ruolini delle aziende con contratti a tempo determinato. Queste figure con una certa frequenza vengono assunte sine die, non vengono però rimpiazzate da altrettanti nuovi ingressi a tempo indeterminato. È la tesi della pipeline che a monte fa avanzare le garanzie degli occupati con la trasformazione dei contratti da precari a fissi mentre a valle non pesca a sufficienza e quindi non rimpiazza (in un anno gli ingaggi a breve sono calati del 4,8 per cento). Ovviamente questa tesi sconta l’idea che i contratti a tempo determinato siano diventati una sorta di ingresso obbligato nel mondo dell’occupazione e quindi il conteggio di quante persone davvero entrano, pur con formule diverse, nel mercato del lavoro dipenderebbe quasi esclusivamente dal dato a valle. Solo che per avvalorare definitivamente questa interpretazione ci manca un ulteriore riscontro: sapere dei 468 mila posti fissi creati negli ultimi dodici mesi quanti sono stati confezionati come contratti di stabilizzazione/trasformazione e quante sono state invece le assunzioni immediate (senza passaggi intermedi) a tempo indeterminato. È questo l’hic Rhodus, hic salta del momento.

 

Operando una supplenza e facendo riferimento alla fenomenologia spicciola si può dire che da parte delle imprese c’è una forte tendenza a confermare “quelli bravi” e il motivo principale non sta solo nelle positive esperienze in azienda, che evidentemente gli stessi candidati hanno potuto fare nel corso dell’ultimo anno, ma soprattutto nel timore dei datori di lavoro di non riuscire a trovare dei sostituti. Il terrore del mismatch. Navigare nella discontinuità delle culture del lavoro generatesi nel post Covid è un esercizio ancora troppo complesso per il sistema delle imprese che approccia il tema con crescente stupore, malcelato timore ed evidenti difficoltà. L’ingaggio, che prima era materia tutto sommato più che abbordabile per la presenza di una domanda di lavoro decisamente ampia, ora per i mutamenti culturali che hanno interessato soprattutto le giovani generazioni e alcuni lavori giudicati troppo duri e senza adeguati riposi, è diventato quasi un campo di battaglia (con l’aggravante che molte Pmi non si sono ancora attrezzate con dei buoni professionisti delle risorse umane). Il potere informale si è spostato a favore dei candidati piuttosto che dei datori di lavoro e sono i primi nel colloquio di assunzione a sottoporre a esame l’azienda che intende ingaggiarli. Fate smart working? Quali istituti di welfare aziendale prevedete? Qual è la flessibilità degli orari? Che percorsi di carriera avete studiato per i nuovi assunti? Qualche anno fa quando Pietro Ichino aveva parlato della tendenza del lavoratore a scegliersi l’impresa era stato insolentito dai suoi critici ma qualcosa del genere sta succedendo, anche se forse non nelle precise modalità che lo scomodo giuslavorista milanese aveva intuito.

 

Che morale si può trarre dal mero esame dei dati Istat di ieri? La prima morale porta a ribadire che siamo davanti a tendenze che si rafforzano e che non vanno considerate più “ballerine”, in mutamento di mese in mese, e che quindi disegnano un mercato del lavoro che non si presta alla reductio ad unum della progressiva e ineluttabile precarizzazione. La seconda morale è che sarebbe urgente saperne di più sui processi di stabilizzazione delle imprese, sulle motivazioni organizzative e sugli esiti qualitativi della loro scelta. Con la demografia avversa, infatti, è possibile che il fenomeno si accentui per il progressivo venir meno delle chance di sostituzione. Insomma quando ci riferiamo allo stato dell’occupazione l’opinione pubblica italiana e anche le indagini che circolano finiscono per apparire quantomeno routinarie. Dovrebbero prendere invece atto delle discontinuità in corso e fornire un quadro di valutazioni più ricco e meno stereotipato di quello che, solo per fare un esempio, continua a fornire la Cgil con la sua narrazione monocorde. Il mercato del lavoro italiano non è certo un prato di fiori (il peso del part time involontario è sempre elevato ed è un caveat nei confronti di analisi superficiali di tendenza opposta) ma merita un’attenzione meno grossolana. Così come meriterebbe maggiore attenzione ciò che sta avvenendo tra i lavoratori autonomi (uno stock di 5 milioni di persone) che sono aumentati nel confronto mese su mese (+5 mila) ma soprattutto sono cresciuti nell’arco dell’ultimo anno, come già detto, di 71 mila unità.

 

Quel che appare certo è che l’aumento dell’occupazione avviene in un contesto che vede l’economia italiana seguire comunque un andamento al rialzo, con aziende che hanno sfornato buoni bilanci e che godono di un portafoglio ordini per ora rassicurante. L’investimento sulle stabilizzazioni di personale ha dunque dietro di sé motivazioni razionali a cui si somma, però, la contraddizione di non poter scommettere con maggiore sicurezza sul lungo termine proprio per le turbolenze del mercato del lavoro in entrata. Il combinato disposto di difficoltà di reclutamento, scarsità di manodopera, tendenza all’abbandono del posto di lavoro costituisce un pianeta ancora largamente inesplorato. Ed è anche un argomento con il quale politica e rappresentanze sindacali hanno paura di venire in contatto e le imprese non sempre hanno in casa le competenze giuste per farlo. Così per ora la principale ricaduta è che il mercato della ricerca e selezione del personale tira. Molto, dicono gli operatori.

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