Pedro Sánchez (LaPresse)

L'analisi

Molti elogi, ma la riforma del lavoro spagnola ha tanti limiti

Edoardo Maria Acabbi e Silvia Vannutelli

Il progetto avviato dal governo Sánchez nel 2022 irrigidisce il mercato e potrebbe ridurre i flussi di lavoratori tra imprese. E non c'è traccia di politiche attive né di formazione continua: i benefici non sono così chiari e i costi devono ancora arrivare

Nel 2022, la Spagna ha adottato una grande riforma del lavoro, riducendo l’uso dei contratti temporanei. Salutata come un successo da molti, anche in Italia, analizzando i numeri e i dati, i benefici non sono così chiari e i costi potrebbero emergere una volta che l’economia spagnola smetterà di crescere a ritmi serrati dopo la ripresa dal Covid. Uno dei principali provvedimenti dell’ora dimissionario governo Sánchez, la riforma è stata estremamente divisiva ed è passata per un solo voto dato per errore dei popolari. Per valutarne gli impatti, è necessario capire il mercato del lavoro spagnolo. La Spagna ha uno dei tassi di disoccupazione (rapporto tra persone in cerca di occupazione e forza lavoro) più alti in Europa, ma ha anche visto la sua forza lavoro raddoppiare dal 1960 a oggi, mentre in Italia è aumentata solo del 30 per cento. Questo fattore di per sé contribuisce all’alto tasso di disoccupazione e alle differenze con l’Italia, che ha un tasso di disoccupazione più basso ma un tasso  di inattività (persone che non cercano lavoro sul totale della popolazione) ben più alto.

 

La Spagna aveva anche il più alto tasso di contratti temporanei, circa il 25 per cento dei contratti di lavoro. Ciò è sorprendente considerando che, già prima della riforma, aveva maggiori restrizioni sull’uso di contratti temporanei rispetto ad altri paesi. Quasi la metà dei giovani tra i 20 e i 29 anni ha un contratto a tempo determinato. Tuttavia, la Spagna è anche il paese europeo in cui i giovani godono di maggiore mobilità tra un lavoro e l’altro, un fenomeno associato a un miglioramento delle condizioni lavorative e indicatore di fluidità del mercato del lavoro. La riforma interviene drasticamente per ridurre l’uso dei contratti a termine, restringendolo a solo due casi: picchi temporanei di produzione e sostituzioni di lavoratori in maternità/malattia. Come naturale conseguenza, questi contratti sono calati del 30 per cento, ma è ancora difficile determinare l’impatto della riforma su occupazione e qualità dei posti di lavoro creati. La crescita dell’impiego in Spagna nell’ultimo anno è in linea con il resto d’Europa nella ripresa post-pandemica, ma il numero di ore lavorate risulta ancora inferiore di circa un punto percentuale rispetto al 2019. Inoltre, le stime del governo spagnolo sul potenziale impatto della riforma sull’occupazione a 10 anni sono state drasticamente riviste al ribasso, da 3,9 a 0,5 punti percentuali.

 

Il calo dei lavori “precari” può indubbiamente avere effetti positivi, non solo per i lavoratori, ma anche per le aziende, che potrebbero essere incoraggiate ad investire di più nei propri dipendenti. Tuttavia, la riforma irrigidisce il mercato del lavoro e potrebbe ridurre i flussi di lavoratori tra imprese, un effetto collaterale che potrebbe avere costi ampi e persistenti sia per la crescita sia per i lavoratori stessi, e colpire proprio i giovani che la riforma mira a tutelare. Studi accademici hanno suggerito che la dinamicità del mercato del lavoro sia fondamentale per garantire aumenti salariali e per una corretta allocazione delle risorse verso le aziende più efficienti. In questo contesto, la diminuzione delle ore lavorate non fa ben sperare. Non si affronta poi il problema della scarsità di politiche attive del lavoro e della formazione continua, elementi critici nei mercati del lavoro moderni. Un recente studio di uno degli autori dell’articolo evidenzia come la perdita del lavoro abbia effetti negativi più persistenti in Spagna, Italia e Portogallo rispetto ad altri paesi europei che investono di più in politiche attive.

 

La Spagna sembra ripercorrere una tradizione italiana, proteggendo il posto di lavoro piuttosto che i lavoratore attraverso restrizioni specifiche facilmente aggirabili dalle imprese. Le aziende spagnole alla ricerca di flessibilità hanno infatti subito sostituito i contratti a termine con quelli “intermittenti”, contratti formalmente a tempo indeterminato, ma di fatto “a chiamata”, consentendo all’azienda di “disattivare” il lavoratore a seconda delle necessità. Un espediente che non garantisce vera stabilità, ma fa felici governo e imprese, grazie a un artificio contabile: i lavoratori con questo tipo di contratto (chiamato “fisso discontinuo”) non sono contati come disoccupati, anche se hanno diritto a richiedere il sussidio di disoccupazione durante i periodi di inattività. Il numero di tali contratti è passato da meno del 2 al 10 per cento di tutti i contratti, attestandosi a quota 1,2 milioni a dicembre. Tenendo conto di questi lavoratori, il tasso di disoccupazione risulta quasi invariato rispetto al periodo pre-riforma. Le conseguenze a lungo termine della riforma sono ancora incerte, ma è evidente che sia troppo presto per entusiasmarsi. La mancanza di una seria discussione sulla necessità di riforme organiche che agiscano su tutti i contratti e affrontino la carenza di politiche attive del lavoro rimane un problema fondamentale.

Edoardo Maria Acabbi
Universidad Carlos III de Madrid
Silvia Vannutelli
Northwestern University e Nber

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