(foto Ansa)

Liberarsi dai lacci

Come trasformare lo stato italiano da ibernatore a innovatore

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Per sviluppare il potenziale delle imprese serve un ente pubblico meno gestore e più regolatore, che non ostacoli la crescita rivestendo ruoli che non gli appartengono. Appunti

I governi di Francia e Gran Bretagna si propongono di indirizzare le proprie economie nazionali verso ruoli di leadership industriale globale: Macron punta sui microchip, Sunak sulla tecnologia. E l’Italia? Con un’economia nazionale già iper frammentata in micro settori e micro imprese che, se da un lato costituiscono una preziosa diversificazione delle specializzazioni produttive, dall’altro non dispongono della dimensione organizzativa e di mercato per ambire a posizioni di leadership globale, lo stato italiano si è rivelato semmai finora un fattore di ibernazione, non di innovazione. Le funzioni caratteristiche della Repubblica, dalla giustizia alla burocrazia, dalla previdenza al welfare, dall’istruzione universale alla salute pubblica, svolgono sistematicamente un ruolo di ostacolo – quando non di esplicito impedimento – all’efficiente allocazione dei fattori produttivi e all’innovazione. Il governo attuale si pone esplicitamente nello stesso solco, celebrando la conservazione, la tradizione, i temi identitari, l’esaltazione del passato. La dimostrazione fattuale è nei numeri. La somma della spesa pubblica in pensioni, cassa integrazione, sussidi ad aziende decotte, nazionalizzazioni de facto di banche e imprese fuori mercato, manutenzioni di infrastrutture inadeguate, posti di lavoro inutili se non dannosi è di ordini di grandezza superiori a quella per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Il 98 per cento della spesa per il lavoro va in sussidi, cassa integrazione e Reddito di cittadinanza, e solo il 2 per cento in politiche attive. La spesa per pensioni è il quintuplo della spesa per istruzione. Negli ultimi anni, quest’ultima è ulteriormente diminuita rispetto alle altre voci di spesa pubblica improduttiva.

 

Da decenni l’Italia è sprofondata nelle ultime posizioni dell’Ocse rispetto agli indicatori di efficienza della spesa statale in termini di contributo alla crescita e all’innovazione. Secondo l’ultima edizione dell’European Innovation Scoreboard, fatta 100 la media europea, l’Italia presenta un indice di innovazione pari a 91.6, avendo perso 2,9 punti nel 2022. Nell’uso delle tecnologie dell’informazione siamo in coda alla classifica con un indice di 68,5, in compagnia di Romania, Bulgaria e Grecia. Persino peggio (59,5) risulta la voce di spesa in ricerca e sviluppo. Le difficoltà nell’implementazione del Pnrr, oltre alla dubbia efficacia di molti dei progetti di spesa pubblica in esso contenuti, sono purtroppo l’ultima evidenza in ordine di tempo, se non il chiodo sulla bara di ogni speranza di innovazione intesa come strategia nazionale.

Con buona pace per l’idea di “stato innovatore”, i soldi pubblici in Italia vengono troppo spesso destinati a congelare imprese improduttive e fuori mercato con la solita facile scusa dell’arbitraria strategicità. L’attuale modello di indennità di disoccupazione punta a conservare il “posto di lavoro” nella configurazione tecnologica e organizzativa esistente, invece che a tutelare e sostenere il lavoratore nel processo di riqualificazione e reintroduzione nel mercato del lavoro in un contesto più produttivo. La ricerca empirica mostra che lo strumento della cassa integrazione è utilizzato in modo sproporzionato dalle imprese a bassa produttività ed è associato a una allocazione molto inefficiente di fattori produttivi, con l’effetto di trasferire risorse dalle aziende più produttive, penalizzandole, a quelle meno produttive. 

Sbaglia tuttavia chi ritiene che, in un’ottica liberale, non ci sia un ruolo dello stato nel favorire l’innovazione. Solo che non è il ruolo del gestore, e men che meno quello dell’imprenditore; bensì quello del legislatore e del regolatore. In questi ruoli lo stato può essere assolutamente decisivo per favorire l’innovazione, o al contrario per deprimerla e ostacolarla, come purtroppo succede in Italia.

Le imprese e il “diritto” di fallire

Nel suo ruolo di legislatore, la prima forma di innovazione che lo stato può favorire è la presa d’atto culturale e istituzionale del ciclo di vita fisiologico delle imprese, che implica l’accettazione del fallimento aziendale come meccanismo socialmente ammissibile di riallocazione dei fattori produttivi. Al contrario, in Italia le risorse pubbliche vengono indirizzate in modo sproporzionato a impedire ogni forma di “fallimento” d’impresa, invece di essere dedicate alla solidarietà, per minimizzarne gli impatti sulle persone più deboli. A fronte del prevedibile choc tecnologico in arrivo, con l’adozione di nuove tecnologie quali l’intelligenza artificiale, serve un’ulteriore, profonda revisione non solo delle leggi ma anche delle procedure per la gestione delle ristrutturazioni e delle crisi d’impresa. Molta attenzione viene giustamente messa sui lunghi tempi necessari per l’apertura di una nuova azienda. Altrettanta enfasi va messa su tempi e modalità certe per la chiusura di un’impresa, tutelando prima di tutto le persone che hanno bisogno di aiuto per essere reintrodotte nel mondo del lavoro. Una modalità di ristrutturazione o chiusura rapida e prevedibile, pur con le inevitabili conseguenze, è un fattore fondamentale per lasciare spazio di mercato all’innovazione.

Concorrenza e produttività 

La seconda forma di ausilio all’innovazione è il deciso contrasto regolatorio agli abusi concorrenziali messi in atto da monopoli e da imprese con posizioni dominanti, perché solo così si offrono spazi di mercato sul lato della domanda (invece di sussidi pubblici sul lato dell’offerta) ai nuovi entranti e agli innovatori. E’ proprio garantendo che rendite e monopoli vengano continuamente e lealmente sfidati da concorrenti e che le imprese tradizionali e inefficienti vengano sostituite da quelle innovative ed efficienti che si massimizza il beneficio per i consumatori finali, e in ultima analisi si favorisce la crescita economica. Il compito del regolatore non è scegliere tra diversi settori quello su cui puntare, ma al contrario, garantire che – entro ciascun settore – siano le dinamiche di mercato e non le influenze politiche a far emergere i vincitori. 


Sbaglia chi ritiene che non ci sia un ruolo dello stato nel favorire l’innovazione. Solo che non è il ruolo del gestore o  dell’imprenditore, bensì è quello del legislatore e del regolatore. Al contrario,  le istituzioni in Italia tendono a deprimere se non a ostacolare la crescita


La ricerca empirica ha evidenziato che l’inefficiente allocazione delle risorse di capitale e lavoro ha una varianza molto più alta all’interno dei settori e delle classi dimensionali di imprese di quanto non sia riscontrabile tra diversi settori e tra imprese di diverse dimensioni. In sintesi, la produttività è un fattore firm specific, non sector specific. Ci possono essere imprese molto produttive in settori tradizionali, e imprese del tutto improduttive in settori avanzati. Se lo stato ostacola le prime, in nome di una presunta e arbitraria “strategicità” dei settori su cui puntare, e sussidia le seconde, causa enormi danni. In Italia si trova molta innovazione di processo in settori merceologici tradizionali (la competitività nella moda e nell’alimentare, ma anche nella meccanica e nel packaging, è lì a dimostrarlo), insieme a grande inefficienza e arretratezza, spesso indotte dalla burocrazia pubblica e dall’influenza politica, in settori avanzati, come nelle infrastrutture per la connettività e nei servizi digitali.
Lo scarso sforzo in senso positivo fatto dallo stato nelle scelte di politica industriale va comunque nella direzione sbagliata, perché pretende di saper identificare i settori strategici all’interno dei quali “scegliere i vincitori”.

Tutela del lavoro e del capitale

Il regolatore deve garantire non solo la conforme competizione all’interno del singolo mercato a valle, ma anche la trasparenza e la liquidità dei due mercati fondamentali a monte, quello dei capitali finanziari e quello del lavoro. Per massimizzare l’accessibilità al mercato dei capitali, l’innovazione che lo stato regolatore può mettere in campo è quella della massima trasparenza non solo dei bilanci aziendali, dove grazie al Registro imprese digitale il sistema camerale italiano è riconosciuto leader europeo, ma anche quella del ciclo attivo e passivo delle imprese, utilizzando il flusso digitale delle fatture elettroniche. Uno strumento nato per scopi di controllo fiscale, come il Sistema di interscambio (Sdi) delle fatture digitali, può infatti diventare una base informativa molto efficace per il monitoraggio in tempo reale – da parte degli intermediari finanziari, in particolare di quelli del mondo fintech – dei flussi economici delle imprese, pur rimanendo sotto il controllo di accesso di queste ultime, secondo gli ormai consolidati princìpi di partecipazione agli ecosistemi digitali. Anche l’accessibilità e la “liquidità” del mercato del lavoro potrebbero beneficiare dell’innovazione tecnologica, specie dopo la massiccia diffusione del remote working indotta dalla pandemia. Lo stato può definire un ecosistema digitale, in coerenza con le finalità istituzionali del Cnel, per meglio tutelare i diritti dei lavoratori digitali al rispetto degli orari di lavoro, alla privacy e alla disconnessione, che nel contempo consenta di analizzare, tramite strumenti di analisi e intelligenza artificiale applicati a grandi moli di dati anonimizzati e normalizzati, le reali competenze richieste dai processi organizzativi, così da orientare opportunamente il sistema educativo e da fornire una base empirica e oggettiva per le funzioni giuslavoristiche, oltre che alimentare i processi di matching professionale per le agenzie del lavoro. Allo stesso modo, anche la certezza del diritto tributario può favorire la liquidità e l’efficienza del mercato del lavoro e dei capitali, e quindi l’innovazione. 

Il mercato dei dati

Oltre a capitale e lavoro, c’è infatti un terzo, fondamentale mercato a monte di tutti i settori dove la mano pubblica può favorire accessibilità e liquidità: il mercato dei dati, ingredienti sempre più indispensabili per alimentare l’innovazione continua, basata su strumenti di analytics e intelligenza artificiale. La natura economicamente non rivale dei dati – che possono essere duplicati a costi marginali praticamente nulli e non impediscono la fruizione contemporanea a diversi soggetti – si presta a enormi economie di scala, che rendono particolarmente inefficienti sia le frammentazioni di mercato sia i fattori che limitano l’accessibilità, l’interscambio e il riutilizzo dei dati. Per questo la dimensione minima degli interventi pubblici sul mercato dei dati non può essere di competenza esclusiva dei singoli stati nazionali, ma deve avere un perimetro almeno europeo. L’accessibilità dei dati, peraltro, non può limitarsi a quelli di tipo “open”, per i quali esiste già da tempo un robusto quadro normativo, ma deve estendersi anche a quelli personali e aziendali. Si tratta di dati dal valore economico potenziale molto elevato che finora sono stati lasciati oggetto delle attenzioni interessate dei grandi player globali. La risposta alla progressiva concentrazione oligopolistica del trattamento di dati privati e aziendali da parte delle grandi piattaforme tecnologiche statunitensi non può tuttavia limitarsi alla pur necessaria regolamentazione sulla protezione dei dati personali introdotta con il Gdpr, né deve sfociare nel proibizionismo digitale di chi vorrebbe impedire ogni forma di interscambio, con effetti devastanti sulle prospettive di innovazione. Proprio per superare l’eccessiva frammentazione dello spazio economico alimentato dai dati digitali, garantendo nel contempo la tutela della privacy e dei diritti di proprietà sui dati sia ai singoli cittadini sia alle imprese, la Commissione europea ha recentemente avviato il progetto Trust, che ha lo scopo di sperimentare architetture di data sharing basate sui princìpi di sicurezza e fiducia. Invece di far convergere la conservazione di tutti i dati sensibili in poche infrastrutture centralizzate, il progetto punta a costituire un ecosistema distribuito di attori a cui cittadini e imprese, specie quelle di piccole dimensioni, possono rivolgersi per la custodia e la valorizzazione dei propri dati. In questa architettura, non sono i dati a essere ceduti agli algoritmi, con il rischio di azzerarne il valore di scambio, bensì sono gli algoritmi a “bussare alla porta” dei custodi dei dati, chiedendo a essi risposte fiduciarie, che vengono erogate solo se le domande poste risultano legittime e autorizzate. Il modello economico a cui punta la Commissione europea è simile a quello dei fondi pensione per la gestione dei risparmi: far nascere nuovi “data steward” fiduciari, attori regolamentati che valorizzano il patrimonio di dati personali e aziendali, tutelando l’interesse dei soggetti ma, nel contempo, massimizzando il valore economico e sociale dei loro dati grazie a precise strategie di investimento in accessibilità e interscambio. 


Lo stato, dunque, può certo contribuire a scongelare l’enorme potenziale di innovazione del paese, invece di insistere nell’ibernarlo. Ma non deve occupare lo spazio degli imprenditori, pretendendo – falsamente – di essere più paziente, più lungimirante e più equo. Svolga bene il ruolo del cliente affidabile, credibile e prevedibile, con l’obiettivo di ottenere beni pubblici nazionali, questi sì strategici, non intervenendo sul fronte dei settori tra cui scegliere i vincitori sul lato dell’offerta ma su quello dei beni e dei servizi da ottenere sul lato della domanda. E faccia il suo prezioso e fondamentale mestiere: quello di presidiare il buon funzionamento del mercato a tutela dei consumatori finali e di garantire la Rule of Law

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