L'intervista
I nuovi motori delle Tlc. Chiacchierata con Benedetto Levi, ad di Iliad Italia
Mercato, investimenti, opportunità e tabù. Con espansioni in vista: “L’Italia è aperta all’innovazione. Adesso occorre uscire dalla comfort zone, rischiare, affrontare qualcosa di diverso”
L’Italia non è un paese per innovatori, troppo conservatore, troppo tronfio del proprio mitico passato come la Sicilia secondo il principe di Salina. Benedetto Levi, amministratore delegato di iliad, non è d’accordo e mette in guardia dai luoghi comuni o dalle facili suggestioni letterarie. “L’Italia è aperta all’innovazione e non parlo solo della cultura, dell’arte, della storia, ma del presente, delle eccellenze tecnologiche dalla farmaceutica all’automotive o al modello distretti. Attenti dunque a come siamo percepiti, perché siamo uno dei paesi più innovativi al mondo”. A sentirlo dire da un top manager giovane, alla guida di uno dei più giovani attori sulla scena europea delle telecomunicazioni, vien quasi da crederci. Nato a Torino nel 1988, laurea in Ingegneria logistica al Politecnico, master a Parigi, esperienza a Londra, nel 2013 fonda una startup che vende accessori per gli smartphone, perché “creare qualcosa da zero mi ha sempre affascinato”, confessa con malcelato orgoglio. Poi lancia sul mercato italiano Trainline (biglietti ferroviari online), società della quale è socio Xavier Niel fondatore di iliad e azionista pressoché unico.
È l’imprenditore che ha scosso il panorama francese delle telecomunicazioni, “un visionario”, lo definisce Levi che ne rimane conquistato e nel 2017 accetta una sfida da far tremare i polsi: lo sbarco in Italia, un mercato maturo dominato da tre big (Tim, Vodafone e Wind3) che coprivano a inizio 2017 oltre il 91 per cento della domanda nella telefonia mobile, un’azienda privata a capitale svizzero (Fastweb), due imprese pubbliche: le Poste e Open fiber; un mercato “dove c’era bisogno di portare tantissima innovazione e si sentiva disamore dalla quasi totalità dei consumatori per i servizi loro offerti”. L’occasione arriva quando l’Unione europea, temendo derive monopolistiche, condiziona all’ingresso di un altro operatore il via libera alla fusione tra Wind e H3G. Il mandato per Levi è ambizioso: niente meno che fare “una rivoluzione”. Oggi iliad in Italia conta più di dieci milioni di utenti, possiede infrastrutture mobili e fisse, ha investito oltre 4 miliardi di euro creando 83 mila posti di lavoro, compreso l’indotto, con un impatto sul pil superiore a dieci miliardi di euro. Passata la pandemia, nel 2022 il fatturato è cresciuto del 15,5 per cento e s’avvicina al miliardo di euro, in controtendenza con il mercato della telefonia mobile che continua a ridurre i ricavi (meno 4,6 per cento dal 2016 al 2021). Levi è anche uscito dal seminato nel 2021 acquisendo il 12 per cento della Unieuro, adesso si sente pronto a partecipare “con un ruolo attivo” al processo di consolidamento che ritiene inevitabile perché cinque operatori strutturati nella telefonia mobile sono troppi. In occasione dell’appuntamento del Foglio dedicato all’innovazione, oggi a Venezia, con Levi abbiamo conversato a tutto campo: dai telefonini alla rete internet, dall’intelligenza artificiale alla proprietà dei dati, abbiamo sfiorato i tasti della sinfonia digitale nella quale siamo immersi e che ci sembra spesso una cacofonia.
C’era bisogno (e ce n’è ancora) di portare in Italia esperienze degli altri paesi; guai a chiudersi nell’autocontemplazione. “La Francia aveva alcuni anni di anticipo nelle startup e nell’innovazione – riconosce Levi – Ora si è creato un ecosistema italiano più favorevole, anche se molto resta da fare”. Ma in che consiste la rivoluzione iliad? Per Levi è un vantaggio poter contare su un imprenditore “appassionato” con una chiara strategia in mente. Ed è “una fortuna” non essere più quotati in borsa. Affermazione sorprendente per chi crede nel mercato, ma uscire da Piazza degli Affari consente di sfuggire alla dittatura dei bilanci trimestrali, dello sguardo breve, non del mercato: “Abbiamo mantenuto la stessa trasparenza verso gli investitori e il mercato, ma quando si mettono in campo investimenti importanti, occorre misurarsi sul medio termine”. I passi di questa “rivoluzione” sono stati sostanzialmente tre, spiega Levi. Il primo è “una offerta commerciale unica, trasparente, generosa in termini di connettività. Non abbiamo voluto usare nessun intermediario, nemmeno con la pubblicità: nessun testimonial famoso nello sport o nello spettacolo, ci siamo presentati come siamo e per quel che facciamo. Poi abbiamo cambiato il modo di distribuire l’offerta, introducendo Simbox, distributori automatici di sim card, oggi ce ne sono oltre 2.000 in tutta Italia anche nei supermercati e consentono di ottenere il servizio in modo chiaro e semplice; tutto è davanti all’utente il quale può evitare la miriade di pezzi di carta, le firme di contratti oscuri e complicati. Inoltre abbiamo voluto innovare noi stessi, la nostra organizzazione, essere più vicini agli utenti e capire cosa non va, adottando un modello orizzontale di gestione. Da ultimi arrivati ci vuole una grande velocità di esecuzione, se ci si mette anni non è più una innovazione”.
Una qualità di chi innova è senza dubbio l’audacia, bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo, ma secondo Levi “occorre anche una buona dose di umiltà, riconoscere gli errori e, ancor più, non rimanere affezionati alle proprie idee; insomma dobbiamo essere pronti a innovare anche rispetto a noi stessi, perennemente”. Ernst Hemingway invitava chiunque volesse scrivere a non restare vittima di quel che più gli piace, la bella frase, la metafora fine a se stessa e diceva: "Kill your darlings”. Ciò vale anche per l’innovazione? “Assolutamente – aggiunge Levi – Occorre uscire dalla comfort zone, rischiare, affrontare qualcosa di diverso, senza timore per quel che ci appare ancora sconosciuto”. È una raccomandazione essenziale anche per affrontare l’intelligenza artificiale. “Negli ultimi mesi abbiamo visto in modo più concreto l’impatto positivo dell’AI. Dalla salute al lavoro a un’infinità di altri aspetti della nostra vita, porterà un enorme valore aggiunto. Dunque dobbiamo dire grazie all’intelligenza artificiale. Nello stesso tempo cominciamo a vederne anche gli aspetti negativi. Quindi, va senza dubbio accompagnata e regolata, va strutturata bene non lasciandola completamente a se stessa”. Forse, prima ancora, va capita. C’è bisogno di un Cartesio e di un Kant per l’era dell’AI, hanno scritto Henry Kissinger, Eric Schmidt e Daniel Huttenlocher. “Un Cartesio e un Kant? Magari. Intanto, c’è anche bisogno che le persone fin dalla più tenera età abbiano uno schema nel quale orientarsi, occorre almeno una cultura digitale di base e ciò è vero anche per una tecnologia meno avanzata. Molti ormai condividono i propri dati online, ma non hanno le basi per proteggere se stessi. Con l’AI tutto questo sarà elevato all’ennesima potenza”.
La questione è davvero cruciale. Emmanuel Macron ha in mente di introdurre nella Costituzione francese un diritto di proprietà per i dati personali. In effetti, le informazioni su me stesso mi appartengono, perché mai dovrei cederle gratis o vedermele sfilare senza una mia esplicita e volontaria scelta? Per Levi “il punto fondamentale è la consapevolezza del consumatore. Se serve per avere un tasso più basso sul mutuo o per altri vantaggi concreti, è ben contento di cedere i propri dati. Vediamo, invece, siti o aziende che prendono le informazioni personali e le rivendono. Noi abbiamo escluso ogni chiamata dai call center, né abbiamo mai ceduto a terzi i dati degli utenti; forse non nel breve termine, ma alla lunga tutto ciò paga. Trasparenza e consapevolezza: quali dati, a chi cederli, per che cosa e anche come recuperarli. L’Unione europea va in quella direzione più e meglio degli Stati Uniti, ma sul nostro mercato ci sono ancora troppi abusi”. La vostra rivoluzione ha innescato anche una guerra dei prezzi. È questa l’accusa che hanno lanciato i concorrenti. Levi risponde con l’indagine condotta dalla Luiss, commissionata da iliad e realizzata da esperti indipendenti: “Il risultato è che le nostre tariffe non sono affatto le più basse. Da quattro anni i tre operatori maggiori, attraverso le offerte riservate, stanno portando avanti loro una guerra dei prezzi opaca perché spesso ci sono costi e condizioni nascoste, aumenti unilaterali, rimodulazioni. Vogliamo parlare di guerra? La nostra guerra è quella della trasparenza e della chiarezza, oltre alla qualità. La Doxa ha misurato la soddisfazione degli utenti e noi abbiamo ottenuto il 99 per cento”, s’accalora Levi.
Il mercato delle telecomunicazioni, ormai maturo, richiede grandi investimenti e il rischio diventa anch’esso sempre maggiore. Tra poco nulla sarà come prima, cambierà la mappa, cambieranno gli attori. E iliad vuol partecipare a questa ristrutturazione: “Lo ribadisco, la volontà di essere parte attiva c’è. La nostra strategia sta proseguendo: prima il mobile, dal 2022 la fibra, un mese fa l’offerta per partite Iva e aziende. Dunque andiamo avanti lungo la strada tracciata, ma se ci fossero le condizioni di un consolidamento, saremmo pronti a partecipare”. In che senso? Acquisendo altri operatori, diventando partner per esempio di uno dei gruppi maggiori, sostituendosi a chi vuol uscire? Si è parlato di Vodafone che ora lascia l’Ungheria e taglia posti di lavoro in Italia. Già l’anno scorso iliad aveva offerto 11 miliardi di euro e il gruppo britannico li aveva rifiutati. Levi sorride e resta abbottonato (a parte la camicia bianca aperta sul collo): “Esistono cinque operatori e vari scenari possibili, se ci saranno le condizioni ci saremo anche noi e, insisto, come parte attiva, non passiva”.
Insomma nessuno scoop, ma in ogni caso iliad vuole crescere nel momento in cui il mercato italiano cambia di nuovo e forse in modo radicale. Basti pensare alla sorte di Tim dove è in atto uno scontro per il controllo (sono in campo l’azionista numero uno Vivendi, il fondo KKR, la Cassa depositi e prestiti) che s’intreccia con la telenovela della rete internet. Unica o plurale, pubblica o privata? Mentre s’insinua il dubbio di fondo: ma con il 5G, i satelliti, la space economy, davvero serve ancora una mega rete sotto terra? Per Levi sì, ce n’è bisogno e non c’è tempo da perdere. “È una priorità”, dice in modo netto. “Una rete in fibra è assolutamente necessaria e deve raggiungere la maggior parte del territorio, nonostante il 5G. È fondamentale per le famiglie, ma pensi anche alle imprese, pensi ai distretti, c’è un gap che può essere colmato solo con la rete fissa in fibra ottica. Noi siamo infrastrutturati anche con la fibra, acquistando quella che si chiama infrastruttura passiva, cioè ovunque possibile installiamo i nostri apparati in casa degli utenti, offriamo fino a 5Gbit al secondo e i nostri router. È necessario, dunque, che operatori retail come noi possano accedere a condizioni eque non discriminatorie con offerte trasparenti e a prezzi competitivi. Queste sono le condizioni, i modi sono molteplici. E non commento le vicende di Tim”. Dunque, più fibra, più efficiente, competitiva, aperta, ma anche più reti di diversi operatori? “Non è il tema di una o più reti, ma delle condizioni praticate”.
Come si inserisce Unieuro nel vostro modello di business, volete entrare nella distribuzione, una scelta che molte compagnie francesi amano? “Da circa due anni siamo il primo azionista, avevamo già una relazione commerciale, le nostre Simbox sono presenti in tutti i loro negozi, abbiamo trovato molti punti in comune nell’approccio al cliente e nella cultura aziendale. Ma non c’è nessuna strategia di diversificazione. Ed è stata una operazione tutta italiana”. Siete una società francese in una Italia dove si fa strada una spinta protezionistica e neo-nazionalista che ostacola gli investimenti esteri. “Noi siamo una società italiana che ha investito in Italia e dà un importante contributo all’economia nazionale. Ma in generale credo che gli investimenti esteri siano una opportunità quando creano valore nel paese”. Possono anche contribuire a far crescere un sistema produttivo rimasto legato al paradigma piccolo è bello che ormai non regge più? “Il piccolo non è necessariamente bello”, ammette Levi, però non è d’accordo che il modello dei distretti abbia fatto il suo tempo perché le aziende di nicchia hanno a loro volta una funzione fondamentale in filiere complesse. “Aver mantenuto una struttura manifatturiera ampia e diversificata è un grande punto di forza soprattutto ora che la globalizzazione sta cambiando”. Anche nell’industria, insomma, la diversità diventa un valore. Benedetto Levi condivide il parere di chi pensa che la nuova catena dell’offerta più compatta, più vicina, meno disarticolata, offra una occasione importante all’Italia. Bisogna coglierla senza lacci né impacci.