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Dove vanno le tv senza Berlusconi

Stefano Cingolani

Con Mediaset il Cav. ha spezzato il monopolio tv per portare la concorrenza. Oggi il mercato italiano dei media è senza dubbio più dinamico e appetibile anche grazie a lui. Globalizzazione, innovazione, spettacolo: appunti per il dopo

E’ stato il protagonista di una nuova era della televisione in Italia e non solo, se ne va quando la televisione come noi l’abbiamo conosciuta e lui l’ha trasformata chiude i vecchi battenti per entrare in una terra sconosciuta. Silvio Berlusconi lascia la sua creatura in buona salute, ma alla ricerca di un futuro. Non parliamo di Forza Italia, perché, anche se sarà ricordato nei libri di storia per la sua “discesa in campo” politica e molte altre cose ancora, l’impronta più duratura del Cavaliere è senza dubbio nella televisione. I suoi governi sono passati in un modo o nell’altro, tra promesse di nuovi “miracoli italiani”, “rivoluzioni liberali”, “cene eleganti” e “persecuzioni giudiziarie”; la tv resta. La domanda che molti si fanno è per quanto ancora e per andare dove.

Mediaset (tutti la conoscono ancora con quel nome) adesso si chiama MediaforEurope, un messaggio non solo un marchio, che fa capire chiaramente dove vuole andare a parare: diventare un grande gruppo davvero internazionale. Il percorso è corretto, anzi inevitabile perché il mercato italiano è non solo saturo, ma troppo piccolo. Tuttavia siamo ai blocchi di partenza. L’azienda sarebbe andata più avanti se avesse seguito le ambizioni di Vincent Bolloré? Chissà, certo non sarebbe rimasta in famiglia. E’ stata messa sotto tiro dalla concorrenza delle piattaforme on-demand, le vere innovazioni distruttive dell’ultimo decennio, e di fronte all’onda d’urto della globalizzazione non ha potuto trovare accomodamenti nazionali, come avvenuto in passato, sia quando venne sancito il duopolio con la Rai grazie a una divisione del lavoro di natura anche politica con la “sinistra radiotelevisiva”, sia contenendo Sky allora in mano a Rupert Murdoch. Gli ultimi anni sono stati un periodo di assestamento, giocando in difesa sul fronte interno contro Bolloré e su quello esterno contro Netflix. . Adesso si tratta di accelerare la doppia transizione: tecnologica ed europea. 

 

Stiamo parlando di Mediaset anche se dovremmo scrivere di Fininvest nel suo insieme, tuttavia il secondo pilastro, quello della editoria sotto l’etichetta Mondadori (con Einaudi, la ex Rizzoli, Piemme e tutto il resto) è ben saldo al primo posto in Italia e non ha problemi d’identità, tanto meno la Banca Mediolanum della quale possiede il 30 per cento affiancando la famiglia Doris. La televisione, d’altra parte, è l’alfa e l’omega dell’avventura Berlusconi, è quella che ha portato un audace, ma piccolo operatore dell’edilizia residenziale, ai vertici del capitalismo italiano. Molto è stato scritto (si potrebbe riempire una biblioteca) sui fantasiosi albori, sulle videocasette spedite nottetempo dalle Alpi al Lilibeo, o sulle riunioni dei venditori a caccia del cliente da malleare. Berlusconi aveva compreso bene la forza dei “persuasori occulti” e della vendita porta a porta, così come le potenzialità di una televisione “all’americana” (anche seguendo i consigli di Mike Bongiorno).

Era convinto come Ted Turner che bisognasse puntare solo su sport e spettacolo, tenendosi alla larga dall’informazione. Invece Turner creò la prima tv all news con la sua Cnn e Berlusconi scompaginò l’informazione televisiva sottraendone il monopolio alla Rai. Ironie della storia. Entrare sul mercato dell’informazione a tutto campo, tuttavia, significava entrare in rapporto diretto con la politica. Chi capì meglio degli altri che la televisione è l’arma più forte, fu Bettino Craxi il quale concluse che non bastava più il manuale Cencelli, ma bisognava dare una scossa esterna a un sistema egemonizzato dalla Democrazia cristiana e dal Partito Comunista come “junior partner”. Su questa base si strinse un sodalizio che condusse Berlusconi a presentarsi come l’erede del craxismo da un lato e del moderatismo anti-cattocomunista dall’altro, quando sotto le macerie del vecchio sistema politico rischiava di finire anche la sua azienda oberata di debiti. 

 

Se la prima spinta era venuta nel 1984 con il decreto che consentiva alle emittenti locali di trasmettere ovunque, seguita dalla legge Mammì del 1990, la seconda e decisiva arrivò nel 1993 quando il Credito Italiano chiese alle aziende di Berlusconi il rientro dai crediti. Si è detto che c’era dietro la mano di Enrico Cuccia da sempre sospettoso: “Quanto valgono le antenne televisive?”, chiedeva sarcastico il banchiere, per lui quella economia impalpabile era sostanzialmente fuffa e in più odorava di scambio politico. Fu Ennio Doris che con Mediolanum aveva in gran parte finanziato il decollo di Mediaset, a chiedere l’aiuto di Cesare Geronzi allora capo della Banca di Roma. Con un finanziamento di 240 miliardi di lire Fininvest venne salvata preparando poi la sua quotazione in borsa. Non va dimenticato che Cuccia non era il solo a non aver capito il ruolo strategico della tv: negli anni ’80 erano crollati uno dopo l’altro i tentativi di grandi editori come Mondadori (Rete4) e Rusconi (Italia1), Mediaset era cresciuta anche grazie ai loro fallimenti. In quel fatidico 1993, Berlusconi incontrò Geronzi e per ringraziarlo lo mise al corrente dell’operazione Forza Italia. Secondo alcune versioni aveva avuto un enigmatico via libera anche da Gianni Agnelli: “Tanto se lui vince vinciamo anche noi, se perde è solo lui a rimetterci” avrebbe detto l’Avvocato. Nel 1994 Berlusconi vinse anche se durò poco per colpa dell’indomabile Umberto Bossi che poi sarebbe andato a Canossa, o meglio ad Arcore. 

 

Gli anni ’90 sono quelli del duopolio con la spartizione del mercato pubblicitario tra la Rai e Mediaset. Mentre si sfidano in politica, il centro-destra da una parte e il centro-sinistra dall’altro stipulano il grande compromesso televisivo che durerà fino al 2001 quando la vittoria travolgente del Polo delle Libertà porta Berlusconi a palazzo Chigi con la promessa che “non si fanno prigionieri” (parola dell’avvocato nonché senatore Cesare Previti). A quel punto cominciano i girotondi e riemergono tutte le magagne del recente passato, dalla Loggia P2 al Lodo Mondadori, alle condanne o “persecuzioni giudiziarie”, l’antica rivalità con Carlo De Benedetti diventa campagna politico-mediatica de La Repubblica, Marco Travaglio annusa “L’odore dei soldi” (titolo del libro su “inchieste, silenzi e misteri”), la sinistra si arrocca a difesa del fortilizio Rai violato da Berlusconi. Il conflitto d’interessi diventa tema dominante, mentre arrivano concorrenti portatori di nuove tecnologie, si pensi a Sky o agli stessi operatori telefonici. Urge mettere ordine e si fa strada a sinistra la proposta di Paolo Gentiloni: spacchettare il duopolio, vendere Rai2 da una parte e Rete4 dall’altra per favorire l’ascesa di un altro concorrente. Ma in Italia il terzo polo non è cosa e non solo in politica, nemmeno nel business, senza dubbio non in quello televisivo. La soluzione è la legge Gasparri apparentemente più aperta grazie alle possibilità offerte dal digitale terrestre. I fattori cambiano, ma non il risultato. Non è nato nessun vero competitor, Rai e Mediaset si sono presi la maggior parte delle frequenze, gli utenti sono stati costretti a comprare nuovi apparecchi televisivi mentre l’irruzione dei social media e dello streaming rendono obsoleta la televisione così come l’abbiamo conosciuta.

 

Globalizzazione e innovazione: viene da questa coppia non dalla politica l’aria nuova nell’universo dell’infotainment, informazione più intrattenimento. Sia Mediaset sia la Rai sono costrette a cambiare. Arrivano le produzioni cinematografiche fatte in casa, i meno costosi talk show, arriva internet dove Mediaset è più veloce della Rai, anche se resta all’inseguimento del mercato. E arriva Bolloré. Il finanziere francese che si è impadronito del gruppo Vivendi era entrato in Italia via Mediobanca, con il viatico di Berlusconi. Poi si trova in mano il pacchetto più grande di Telecom Italia e scala Mediaset con l’obiettivo dichiarato di creare una “Netflix europea” mettendo insieme le attività italiane e spagnole di Mediaset, quelle francesi di Vivendi e stipulando un accordo con un big tedesco (era in ballo Bertelsmann). Il Cavaliere non la prende bene, è convinto che Bolloré lo voglia scalzare, si difende in tribunale, ma anche nella corte della politica. Il predatore transalpino è bloccato dalle autorità di vigilanza, scatta un golden power di fatto. Non è la prima volta. Era stato Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, a dichiarare che Mediaset era “una risorsa dell’Italia”. E non solo Mediaset, l’intero gruppo Fininvest è un “campione nazionale” che, però, deve diventare internazionale. E’ questo il compito che grava sulle spalle di Marina e Piersilvio. 

 

Un giudizio equilibrato su Berlusconi è ancora impossibile, bisognerà attendere chissà quanto. Ma sul suo terreno privilegiato è stato un innovatore incompiuto: ha spezzato il monopolio per portare la concorrenza e ha creato un duopolio, così come in politica voleva ridurre le tasse e liberare gli animal spirits, ma è rimato in mezzo al guado. Oggi il mercato italiano dei media è senza dubbio più dinamico e appetibile anche grazie a lui. La barriera linguistica con le nuove piattaforme è sempre meno un impaccio. La politica resta invadente, però anche qui lo scenario è diventato più competitivo.  Liberandoci da pregiudizi e paraocchi, va riconosciuto che l’Italia ha vissuto trent’anni di alternanza al governo e il mercato politico s’è aperto. Nell’uno e nell’altro campo, Berlusconi ha fatto da apriscatole.

 

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