l'editoriale del direttore
L'unico modo per migliorare i salari è intervenire sul cuneo fiscale? Falso. Care imprese, pagate di più
Gli imprenditori hanno il dovere di aumentare le paghe a prescindere dagli aiuti di governo. Caso Messina, metodo Marchionne e un tabù da affrontare
Ieri i contratti, oggi i salari. C’è stato un tempo in cui, sul fronte del lavoro – fronte su cui in modo rocambolesco come racconta oggi Valerio Valentini sul Foglio il governo è riuscito ad andare sotto in commissione, sul parere al nuovo pacchetto di emendamenti al decreto “Lavoro” – il grande tabù, il grande elefante nella stanza, coincideva con un totem intoccabile: l’articolo 18. Erano i tempi in cui ancora si discuteva se fosse giusto oppure no fidarsi degli imprenditori. Se fosse giusto oppure no dare maggiore libertà alle imprese. Se fosse giusto oppure no creare condizioni favorevoli per consentire a un datore di lavoro di avere a disposizione un contratto più agile, più snello, più flessibile, in grado di non trasformare ogni rapporto con un dipendente in un rapporto eterno.
C’è stato un tempo in cui, sul fronte del lavoro, a rompere quel muro di ipocrisia ci pensò Sergio Marchionne, allora ad di Fca, che nell’ottobre del 2011 decise di sbattere la porta in faccia alla Confindustria guidata da Emma Marcegaglia, che all’epoca scelse di non assecondare il tentativo dell’azienda di Marchionne di lavorare a contratti più flessibili. Marchionne fece una cosa rivoluzionaria: mise fine al contratto nazionale di lavoro, che aveva caratterizzato le relazioni industriali del Dopoguerra, per scommettere su un nuovo scenario, all’interno del quale a farla da padrone sarebbero state finalmente le singole imprese, ciascuna delle quali avrebbe potuto decidere se applicare in autonomia il contratto nazionale o ricorrere a un contratto aziendale, capace cioè di rispondere con più prontezza alle condizioni contrattuali di una singola azienda.
Dodici anni dopo, si può dire che la strategia di Marchionne ha funzionato: la contrattazione decentrata ha permesso alle imprese di muoversi con maggiore libertà, la flessibilità introdotta nei contratti attraverso il Jobs Act ha reso il mercato del lavoro più agile e il numero di posti di lavoro è aumentato in modo considerevole. Resta un problema: i salari. Che fare? Il grande elefante nella stanza, ancora una volta, riguarda le imprese e riguarda un tema che le associazioni di categoria, quelle che rappresentano le imprese, hanno scelto quasi sistematicamente di ignorare, prediligendo una battaglia differente: chiedere alla politica quello che dovrebbero fare le imprese. Fino a oggi, le associazioni di categoria hanno scelto di portare avanti una battaglia chiara: l’unico modo per avere salari migliori, nelle aziende, è quello di abbassare il cuneo fiscale. La battaglia ha un senso, ovviamente, ma è una battaglia a metà, che costringe anche noi amanti delle imprese, del mercato, della globalizzazione, dei capitani d’industria a porci una domanda: ma nell’attesa che la politica faccia la sua parte, che cosa diamine aspettano le imprese ad alzare i salari? E, in subordine, cosa aspettano la associazioni di categoria a prendere atto dello stato di salute delle nostre imprese, della loro crescita, del loro debito ridotto, dei loro successi nell’export, per spingere gli imprenditori a migliorare le paghe?
Un tentativo di mostrare l’elefante nella stanza lo ha fatto qualche settimana fa l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, che sbattendo la porta in faccia all’associazione di categoria dei bancari, Fabi, ha scelto di aumentare i salari ai dipendenti della banca senza aspettare i negoziati tra i sindacati e i rappresentati di categoria. “Con un utile netto di 7 miliardi di euro – ha detto Messina – non ho coraggio a guardare in faccia le persone e dire che mi metto a negoziare su questo aspetto”. Qualche mese prima, la banca guidata da Messina aveva lasciato anche l’Abi, l’Associazione bancaria italiana, per condurre una negoziazione separata con i sindacati sullo smart working e sulla settimana corta. In entrambi i casi il messaggio è chiaro: per migliorare la vita dei lavoratori, dandogli soldi in più e tempo in più per godersi la vita, è ridicolo dover aspettare le scelte nazionali dei sindacati, nascondendosi dietro le contorsioni burocratiche e i bizantinismi fuori tempo massimo dei rappresentanti di categoria, ed è necessario che i capitani di impresa facciano invece su questo campo qualcosa in prima persona, direttamente, smettendola di legare il benessere dei propri dipendenti o a trattative politiche (intervenite sul cuneo fiscale, sennò nulla) o a trattative sindacali (noi vi diamo più soldi, voi in cambio che ci date?).
La condizione vissuta da Intesa Sanpaolo, ricavi alti, debito basso, prospettive di crescita elevate, è una condizione che stanno vivendo gran parte delle imprese del nostro paese (l’export italiano, come ricorda spesso Bonomi, è al massimo storico e ha superato i 600 miliardi di euro lo scorso anno). Chiedere alla politica di fare di più è legittimo. Ma chiedere alle imprese di migliorare le condizioni di vita dei propri lavoratori – alzando i salari senza aspettare che a farlo siano i contratti nazionali e provando ad attrarre manodopera migliorando i compensi senza aspettare che i posti di lavoro vacanti siano occupati da lavoratori in grado di accettare contratti a salari molto bassi: se le imprese si lamentano che non trovano lavoratori è anche perché devono motivarli di più e non c’è altro modo per motivarli che alzare i salari – non è un’eresia: è semplicemente un dovere. E di solito le rivoluzioni più importanti, quando si parla di mercato del lavoro, quando si parla di flessibilità, quando si parla di benessere dei dipendenti, sono quelle che arrivano dalle imprese non quelle che arrivano dalla politica. Valeva ieri per i contratti, vale oggi per i salari. Ascoltate Messina, cari imprenditori, ascoltate meno i sindacati, e fate un primo passo per dimostrare che le imprese per pagare di più non hanno bisogno necessariamente della mancia dello stato.