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Rivalità monetaria

La notizia del tramonto del dollaro è fortemente esagerata

Stefano Cingolani

Una ricerca dell’Official Monetary and Financial Institutions Forum mostra che la moneta americana, pur registrando un'erosione, resta dominante. Gli scenari e la possibile concorrenza

Il primo a vaticinare il declino del dollaro fu l’economista belga Robert Triffin addirittura nel 1960: una tesi allora minoritaria che riprese forza dopo il 1971 con la fine del sistema monetario internazionale costruito a Bretton Woods nel 1944, e con l’iperinflazione scatenata dagli sceicchi. La crisi finanziaria del 2008-2010 diede nuova lena ai declinisti e oggi la sfida cinese alimenta l’illusione che la “moneta del popolo”, renminbi o yuan che dir si voglia, sarà presto in grado di emarginare quella dello zio Sam. Ma il biglietto verde è sempre lì al centro dell’economia internazionale, il signore degli scambi, la valuta di riserva per il mondo intero. 

Una ricerca dell’Official Monetary and Financial Institutions Forum (Omfif), pensatoio della Banca d’Inghilterra, pubblicato dal Financial Times mostra che la moneta americana resta dominante. Oggi conta per il 58 per cento nei portafogli di tutte le banche centrali e di qui a dieci anni potrà scendere al massimo di quattro punti. La sfida viene da molte parti, non solo dalla Cina, ma persino dal Brasile che non può dare certo lezioni di stabilità monetaria con il suo real anche se Lula è tornato a tuonare contro l’egemonia a stelle e strisce. Del resto, la vicina Argentina, di nuovo sull’orlo del crac, è ormai da tempo dollarizzata. La guerra in Ucraina e il congelamento delle riserve russe ha dato più lena proprio al dollaro, al contrario di quel che racconta la  propaganda degli “euroasiatici”. L’indagine britannica mostra che il 16 per cento delle banche centrali prevede di aumentare le riserve in dollari, il 6 per cento di ridurle nei prossimi dieci anni, il resto è per la continuità.

Un’erosione c’è stata, sia chiaro: nel 2001 la quota del dollaro nelle riserve valutarie mondiali era pari al 71 per cento, ma nel frattempo s’è fatto spazio l’euro che oggi pesa per circa il 23 per cento. Il biglietto verde ha viaggiato sulle montagne russe: durante la crisi finanziaria, tra il 2008 e il 2012, si era avvicinato a quota 60, mentre dal 2016 ha fatto capolino il renminbi che resta però molto lontano, ancor più se consideriamo gli scambi commerciali. I dati di Swift, la piattaforma internazionale di pagamenti e finanziamenti, dicono che la quota di mercato della moneta cinese in valore è passata da meno del 2 per cento nel febbraio 2022 al 4,5 per cento, avvicinandosi all’euro che rappresenta il 6 per cento del totale. Davvero poco rispetto al dollaro che, pur in calo di due punti e mezzo, si attesta all’84,3 per cento, nonostante il prodotto lordo degli Stati Uniti sia un quarto di quello globale e le esportazioni solo l’8 per cento. I fattori che determinano la forza della valuta americana sono sempre gli stessi: le dimensioni dell’economia e il suo vantaggio tecnologico; il primato di Wall Street basato sulla liquidità del mercato dei capitali, in grado di offrire opportunità di investimento come nessun altro; la credibilità delle istituzioni, sia pur ferite dal sovversivismo trumpiano; la potenza militare.

La concorrenza più che dalla moneta del popolo può venire dalla tecnologia? La Bce sta dedicando molta attenzione ai nuovi strumenti tanto da mettere in cantiere un euro digitale, la Federal Reserve è riluttante. In ogni caso, sarebbero proiezioni tecnologiche di monete sovrane, mentre le criptovalute nascono in alternativa alle banche centrali, anzi allo stesso circuito bancario. E non hanno le caratteristiche classiche della moneta: non sono né misure né riserve di valore, non possono essere considerate beni rifugio e nemmeno mezzi di pagamento affidabili. Il loro punto di riferimento resta il biglietto verde e il tentativo di ancorarle a un paniere di monete forti, come proposto da Facebook, è abortito. 

“E’ probabile – sostiene l’economista Barry Eichengreen – che il dollaro continuerà a dominare anche in futuro, ma tempo dieci anni vedremo altre valute affermarsi”. Nei primi quattro mesi di quest’anno, gli investitori nei mercati emergenti hanno ritirato una grande quantità di fondi denominati in hard currency, soprattutto dollari, per comprare titoli in moneta locale, in real brasiliani, in rupie indiane, pesos messicani e così via. E’ la conseguenza della de-globalizzazione che frantuma il mercato mondiale e consiglia di diversificare e rendere il portafoglio più local. Ma attenzione, il maggior beneficiario anche di questo processo non sarà lo yuan, bensì l’euro: secondo la ricerca del think tank britannico il 14 per cento delle banche centrali, quelle che puntano sulla diversificazione, programmano di comprare più euro. Con buona pace di chi in Italia ancora sogna piani B per tornare alla lira.

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