Il pensiero
La lezione di Röpke sull'ordine internazionale che passa “dal cuore di ciascuno”
In "L’ordine internazionale", l'intellettuale tedesco parlava di "epidemia spirituale di massa”, un male che colpisce l’uomo, causata dalla dissoluzione dei prinicipi liberali e dalla perdita di orientamento che portò al propagarsi dei "terribili semplificatori"
Pochi pensatori risultano così attuali nel descrivere la crisi sociale come Wilhelm Röpke (1899-1966). L’intellettuale tedesco parlava di “epidemia spirituale di massa”: un male che colpisce in maniera onnicomprensiva l’uomo. Un disordine complessivo causato dalla dissoluzione dei princìpi liberali e dalla perdita di orientamento che portò al propagarsi dei “terribili semplificatori”, di cui parlò Jacob Burckhardt, e alla rinascita di nazionalismi e collettivismi. Curato e con la postfazione di Flavio Felice, è ora nuovamente disponibile L’ordine internazionale (Rubbettino, 340 pp., 18 euro), il terzo e ultimo capitolo della trilogia röpkiana dedicata alla crisi sociale. Esso segue La crisi sociale del nostro tempo (1942) e Civitas humana (1944), già pubblicati dallo stesso editore. Il libro continua l’argomento trattato dei precedenti, spostando però il focus argomentativo sul piano internazionale. Da pensatore organico, Röpke concepisce l’ordine interiore alla persona, passando a quello pluralistico-comunitario e nazionale e, infine, a quello internazionale come gradini di un tutto collegato. La crisi morale e spirituale che colpisce l’uomo, cagionando quella che José Ortega y Gasset definì “ribellione delle masse”, non fa che riverberarsi dunque a tutti livelli.
Per Röpke, la storia origina dai singoli. La speranza deve insomma sostituire il fatalismo: “Anche la via verso l’ordine internazionale deve passare attraverso lo spirito e il cuore di ciascuno; tutto dipende soltanto da noi stessi, dalla nostra intelligenza ed energia, dalla nostra onestà e magnanimità; nostra è la responsabilità e non esiste ordinanza di potenti né impersonale ‘corrente dei tempi’ che ce la possano togliere a lungo andare”. Come fecero Ludwig von Mises, in Stato, nazione ed economia (1919) e Socialismo (1922), e Friedrich von Hayek, nella Via della schiavitù (1944) – sovente citati nel volume – anche Röpke individua nel germe collettivistico il vulnus della convivenza umana. Se pace e liberalismo sono inestricabilmente legati, è il collettivismo nazionalistico, sia esso di destra o di sinistra, che porta al conflitto, ovvero alla guerra. Entrambi issano come vessillo il primato dello stato, calpestando in tal modo la libertà individuale e la spontanea cooperazione intersoggettiva.
Nell’introduzione Röpke ammise di aver percorso, ancora giovane, una strada errata: quella del socialismo. Il “Grande errore” era stato quello di imputare al capitalismo, una vaga ipostasi di comodo, i mali che in realtà erano riconducibili al principio collettivistico in quanto tale. La guerra e il nazionalismo erano causati dall’idolatria dello stato, dispositivo delle tirannidi. Si palesava così uno iato irreconciliabile tra il socialismo, che non può che essere nazionale e conflittuale, e il liberalismo, che invece ha come perno la persona e la cooperazione pacifica. “La guerra – ammise Röpke – era semplicemente l’eccessivo rigoglio dello stato, era collettività scatenata”. Ciò si verificò a causa della corruzione degli ancoraggi di una buona società: senso di responsabilità e indipendenza, tutela della proprietà e intangibilità della dignità umana, prudenza e fortezza d’animo, senso del limite e fede, radicamento comunitario e rispetto delle tradizioni. In sostanza, se la deviazione dai binari di un mondo (imperfettamente) pacifico e libero era stata possibile, dopo “quella lunga radiosa giornata solare del mondo occidentale, la quale durò dal Congresso di Vienna fino all’agosto del 1914”, ciò era da imputarsi, prima di tutto, alla moltiplicazione di una cattiva morale. La speranza, secondo Röpke, risiedeva nell’autentico federalismo sussidiario, e affonda le radici nei princìpi di libertà e pace. Per Röpke, la sfida era dunque tenere bene distinti liberalismo e collettivismo, giacché “un ordine internazionale è possibile soltanto su basi liberali, non mai su base collettivista”. Le buone istituzioni, insomma, non possono che originare da buoni princìpi.