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L'analisi

Chi ha paura del ddl Capitali, tra riforme e colpi di mano

Mariarosaria Marchesano

Il disegno di legge approvato dal governo Meloni estende alle società già quotate il voto maggiorato previsto per le quotande. Opportunità o lesione dei diritti?

Il mondo della finanza è in subbuglio per il ddl Capitali. Approvato dal governo Meloni come lo strumento principale per attuare il libro verde della finanza voluto dall’esecutivo di Mario Draghi, ha cominciato in sordina il suo iter parlamentare e ora è all’esame della commissione Finanze del Senato, che ha prorogato al 20 luglio il termine per la presentazione degli emendamenti. Tutto regolare, insomma, se non fosse che terminato il giro di audizioni si è fatta largo l’idea che il testo originale potesse essere modificato per estendere alle società già quotate la flessibilità del governo societario che è stata prevista per le quotande. In particolare, si parla di potenziare il voto del socio di controllo. “Sarebbe una scelta corretta dal nostro punto di vista perché sosterrebbe le imprese nei loro piani d’investimento  – dice al Foglio Stefano Firpo, direttore generale di Assonime, l’associazione delle società per azioni italiane –. Il capitalismo familiare italiano ha voglia di crescere e l’unica opzione possibile, in un mercato dei capitali poco evoluto come il nostro, è quella di aumentare la capacità dei principali azionisti di realizzare operazioni fondamentali per la vita delle imprese, come le acquisizioni e le fusioni”. In effetti, negli ultimi anni sono nove i campioni nazionali italiani – l’ultima in ordine di tempo è stata la  Brembo e prima ancora Campari ed Exor – che hanno trasferito la sede legale in Olanda dove il voto maggiorato è da tempo una realtà. “Grazie a questa decisione, le nove società  hanno triplicato il loro valore di mercato, da 50 miliardi a 150 miliardi a vantaggio di tutti gli azionisti”, prosegue Firpo, che però precisa: “Attenzione,  non vogliamo che il voto maggiorato venga introdotto in Italia per legge com’è accaduto in Francia perché sarebbe un disastro. Siamo, piuttosto, favorevoli a che nel nostro ordinamento ci sia questa opzione, ma la sua adozione deve essere lasciata alla libera scelta dell’impresa”. 

La differenza, come si può intuire, è sostanziale poiché nel primo caso il voto maggiorato diventerebbe un automatismo con il rischio di ledere gli interessi delle minoranze, aspetto messo in evidenza dal presidente della Consob, Paolo Savona. Nel secondo, dovrebbe passare attraverso una modifica dello statuto da approvare con un quorum di voto qualificato. Quello che non si capisce è chi potrebbe presentare questo tipo di emendamento al ddl Capitali, che come ricorda l’avvocato Lucas Plattner, dello studio Advant-Nctm, “è stato voluto dal governo per incentivare e semplificare la quotazione in Borsa di nuove società, soprattutto di pmi, i cui fondatori spesso temono di perdere il controllo aprendo il capitale a terzi, ma non si è mai parlato della governance delle società già quotate”. E qui bisogna fare una precisazione tecnica. Plattner, che ha seguito l’iter del decreto fin dall’inizio, spiega che uno dei capisaldi del provvedimento è il voto plurimo, o meglio il suo rafforzamento visto che il codice civile già lo contempla sebbene in misura contenuta, e che questo riguarda solo le quotande. Non è previsto, invece, il voto maggiorato per le quotate. Peccato, però, perchè è esattamente ciò di cui di cui si discute sotto traccia tant’è che c’è chi comincia a temere una revisione troppo radicale del ddl, come per esempio Assogestioni, nettamente contraria al voto maggiorato perché diminuirebbe il peso dei fondi d’investimento, spesso presenti con partecipazioni di minoranza ma rilevanti. “Un allargamento della riforma – osserva Plattner – potrebbe portare a uno sconvolgimento degli assetti proprietari delle imprese quotate, soprattutto di quelle con maggiori dimensioni con un azionariato frazionato”. 

Non si fa troppa fatica a leggere in queste parole l’identikit di società come Generali e Mediobanca, che tendono verso il modello public company in stile più anglosassone che francese. Ha ragione, dunque, chi teme che gli equilibri di questi grandi campioni italiani possano essere ribaltati? “Un diritto di voto maggiorato e senza diritto di recesso per le minoranze deve essere valutato con estrema attenzione, tenuto conto anche della probabile forte contrarietà degli investitori istituzionali”, dice Plattner. Al momento, comunque, non ci sono elementi sufficienti per allarmarsi o gridare al colpo di mano. E le parole del sottosegretario al Mef, Federico Freni, (“Il ddl si può cambiare ma il testo rimane valido”), interpretate come un’apertura a regole più flessibili estese a tutti i tipi di società, potrebbero in realtà essere un segno di cautela in questo senso. Vero è, come ha fatto notare in audizione al Senato l’ex ministro Vittorio Grilli (oggi in Jp Morgan), che in questa vicenda si confrontano due culture diverse, quella anglosassone in cui il controllo della società  quasi non interessa perché ciò che conta per gli azionisti è il rendimento finanziario, e quella italiana in cui conta il rendimento ma è importante anche il coinvolgimento nella vita sociale dell’impresa. E quindi la prospettiva di diluirsi quando si fa un aumento di capitale fa temere all’imprenditore di perdere il controllo. Trovare un nuovo equilibrio, più in linea con i tempi e con la necessità di rendere competitive le imprese italiane non è semplice. Ma bisogna pur prendere atto, come dice Firpo di Assonime, che la fuga all’estero di tante imprese italiane, oggi facilitata da alcune direttive comunitarie, “ha una ricaduta sistemica che cresce con il passare del tempo perché con la sede sociale si trasferisce un’intera fetta dell’eco-sistema, costituito da industrie di alta qualità e a elevato valore aggiunto”.

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