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L'analisi

I rischi di avere un salario minimo senza riformare la contrattazione

Silvia Vannutelli

Una soglia a 9 euro e contratti nazionali rigidi sono un mix esplosivo. Imparare dalla Germania: adottare un salario minimo, ma lasciare la possibilita di esentare aree economicamente svantaggiate, aziende o settori in crisi

Il dibattito sul salario minimo non può prescindere da un ripensamento della contrattazione collettiva. Che in Italia è, da sempre, troppo rigida. Lo è nella durata delle rinegoziazioni: ogni tre anni, mentre in Germania accade ogni due e in Francia ogni anno e mezzo. Lo è nel livello di contrattazione: unico per tutto il territorio nazionale, mentre in paesi come Germania, Grecia, Portogallo e Spagna è altamente decentrato. Questi due fattori fanno si che in Italia i salari reagiscano sempre con gran ritardo agli aumenti di prezzi, non siano capaci di rispondere a choc locali differenziati e creino condizioni di disparità orizzontali tra individui che fanno lo stesso lavoro a Milano o a Catania. Fissare lo stesso salario nominale su tutto il territorio nazionale si traduce infatti in enormi differenze di salari reali, date le grosse divergenze di costo della vita. Secondo gli ultimi dati disponibili della societa Numbeo, che stima ad alta frequenza i costi della vita in tutte le citta del mondo, il costo della vita (affitti esclusi) a Milano è piu alto del 30 per cento. Così, in termini reali, un operaio a Milano finisce per guadagnare almeno il 30  per cento  in meno rispetto a Catania. Se si considerano anche gli affitti, che a Milano sono il triplo che a Catania, la differenza in termini di costo della vita sale a oltre il 40 per cento. E’ bizzarro che fossero proprio queste differenze, ritenute inique, tra retribuzioni di lavoratori simili in aree geografiche diverse la causa delle proteste nel 1969 che portarono poi all’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali” all’inizio degli anni ‘70. Eppure ai tempi, le differenze massime tra salari (nominali) degli operai erano circa la metà dei divari reali esistenti oggi.

Cosa c’entra questo col salario minimo? Come evidenziato ormai da molti economisti negli ultimi giorni, un punto cruciale è stabilire il livello adeguato del salario minimo. E date le ampie differenze di produttività e costo della vita tra aree geografiche, sembra difficile che un singolo livello salariale per tutto il territorio nazionale possa essere la scelta giusta. Dall’audizione dell’Istat è emerso chiaramente come il salario minimo a 9 euro l’ora avrebbe un’incidenza di oltre il doppio al sud (coprendo il 29 per cento dei rapporti di lavoro) rispetto al nord (13 per cento). Andando a guardare meglio i dati, si capisce che la ragione sottostante questo differenziale non è dovuta al fatto che i salari orari al sud siano più bassi (non possono esserlo, per l’appunto, data la contrattazione nazionale), ma piuttosto all’alto tasso di disoccupazione, sottoccupazione e lavoro informale presenti nel meridione.

Numerosi studi mostrano infatti come, a seguito delle crisi economiche, il Mezzogiorno abbia reagito con una consistente contrazione dell’occupazione e delle ore lavorate. L’economia meridionale si è mostrata meno resiliente agli choc economici anche a causa della rigidità e impossibilità di aggiustamento dei salari locali a causa della contrattazione nazionale. In un influente studio del 2019, Boeri, Ichino, Moretti e Posch quantificano come la rigidità della contrattazione nazionale e l’imposizione dei livelli salariali nominali troppo alti al sud abbia causato un tasso di occupazione di 12 punti percentuali più basso di quanto sarebbe potuto essere con un modello flessibile simile a quello tedesco. In queste condizioni, quindi, l’imposizione di un salario minimo unico nazionale di livello troppo alto, soprattutto al sud, rischia quindi di spingere ancora di più fuori dal mercato del lavoro formale proprio quei lavoratori che l’introduzione stessa del salario minimo mira a proteggere.

Esiste un modello alternativo? La risposta è sì, ed  è il modello tedesco. E’ bizzarro che proprio la Germania sia stata citata più volte in questi giorni da uno dei principali promotori della proposta di salario minimo, l’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Peccato però che si sia scelto di prendere in considerazione solo una parte del modello tedesco, ovvero la definizione per legge del salario minimo (peraltro fissato a un livello relativo molto inferiore alla proposta attuale Italiana), ma non l’altro, ovvero la grande flessibilità nella contrattazione e la possibilità per le imprese di derogare ai contratti collettivi. Ed è proprio questo secondo aspetto a essere stato alla base della ripresa post-unificazione e del miracolo economico tedesco degli ultimi 30 anni (si veda lo studio di Dustmann e altri, citato di recente qui sul Foglio).

Cosa fare, dunque? Ci sono almeno tre opzioni. La prima: adottare un unico salario minimo nazionale prendendo a riferimento le condizioni dei lavoratori in mercati del lavoro più svantaggiati del sud, e poi eventualmente permettere potenzialmente alle regioni di adottare salari minimi locali più alti, come avviene negli Stati Uniti. Seguendo i criteri internazionali secondo cui il salario minimo debba essere fissato intorno al 60 per cento di quello mediano, questa soluzione porterebbe ad adottare un salario minimo tra i 6 e i 7 euro l’ora. La seconda: adottare per legge salari minimi già differenziati a seconda delle zone geografiche. Una terza opzione, forse quella politicamente più fattibile, sarebbe quella di adottare un salario minimo parametrato sulla mediana nazionale, ma lasciare la possibilita di esentare aree economicamente svantaggiate, aziende o settori in crisi, dall’applicazione del salario minimo. E’ quest’ultima la soluzione scelta dalla Germania, che per i primi due anni esentò tutti i contratti collettivi con i minimi al di sotto del nuovo minimo nazionale, così da consentire un adeguamento graduale tra settori e aree, e tuttora esenta i contratti di lavoratori precedentemente disoccupati per i primi sei mesi. Sarebbe poi importante introdurre in parallelo meccanismi di forte decontribuzione per aziende che assumono lavoratori più deboli, come avviene in Francia. Questo avrebbe anche il lato positivo di incentivare l’emersione dal lavoro nero. Tutti gli scenari ovviamente comportano di venire incontro alla realtà, abbandonando facili slogan elettorali legati a un singolo numero.

Silvia Vannutelli, Northwestern University

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