Gran parte del neoliberismo italiano è stato essenzialmente effetto del recepimento delle direttive europee: un percorso partito nel 1979 e conclusosi con l’adesione all’euro (LaPresse) 

La sinistra e i conti con il neoliberismo

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Un modello economico che in Italia ha attecchito poco o niente. E se lo ha fatto è per merito della nostra collocazione internazionale (l’Europa) e della parte politica che oggi ne è in piena crisi di rigetto. Risposte a un dibattito del Mulino

Il neoliberismo, come direbbe Totò, è un po’ come la nebbia: “Quando c’è, non si vede”. Il sito del Mulino, la rivista che più di tutte in questo momento sta interpretando la culture war della sinistra, ha ospitato un interessante dibattito a distanza tra Angelo Panebianco e Norberto Dilmore. Il primo ha sostenuto che considerare l’Italia un paese neoliberista è risibile perché “qui da noi nulla del genere ha mai attecchito”. La replica è particolarmente interessante perché non viene da un esagitato censore del capitalismo, ma da un nom de plume che, attraverso i suoi scritti, esorta la sinistra a non farsi risucchiare nel gorgo dell’estremismo. Lo studioso fa coppia fissa con Michele Salvati, uno degli intellettuali che più di tutti si sono battuti per modernizzare il Partito democratico e, ancor prima, il centrosinistra. Dilmore svolge principalmente due argomenti. Il primo, che potremmo chiamare del neoliberismo malgré soi, suona così: “È difficile pensare che la narrativa neoliberista e le politiche da essa prescritte, che per trent’anni hanno dominato la scena economica internazionale sia nei paesi avanzati sia in quelli emergenti (ivi inclusa la Cina), non abbia avuto un impatto importante anche sull’Italia”. Il secondo, che chiameremo del neoliberismo asintomatico, è che “l’Italia fa parte dei paesi in cui le politiche neoliberiste, anche per il modo in cui furono adottate, hanno prodotto risultati positivi limitati, mentre in molti casi le misure intraprese hanno esacerbato problemi esistenti”.

 

È certamente vero che il “neoliberismo” – anche se il termine è sfuggente e per certi versi caricaturale – ha conosciuto una fase, se non di egemonia, quanto meno di successo intellettuale. A partire dagli anni Ottanta, le idee dei fautori dell’interventismo pubblico a 360 gradi, della politica industriale e dello stato massimo sono entrate in crisi. E questo ha consentito un’onda di riforme che ha travolto i dazi doganali, l’iper-regolamentazione, la politica del “tassa-e-spendi” e la dipendenza delle banche centrali dai governi che avevano segnato la fase precedente. Se questo è accaduto, non è solo perché i pifferai di Chicago hanno plagiato le masse: è anche, e soprattutto, perché il precedente paradigma si era rivelato fallimentare, in modo clamoroso col crollo dell’Unione sovietica, e in modo meno rumoroso nel mondo libero dove comunque lo statalismo aveva esaurito la sua spinta propulsiva.

 

Dopo che le macerie del Muro di Berlino travolsero il socialismo, la sinistra adottò  l’europeismo come prospettiva ideale e politica, insieme alla nuova costituzione economica che l’Europa proponeva. Se in Italia c’è stata una svolta “neoliberista” questa è essenzialmente coincisa con l’integrazione europea

   

Quando Margaret Thatcher vince le elezioni nel 1979, lo fa promettendo agli inglesi che i tory avrebbero restituito agli individui il controllo delle loro vite (che era stato conculcato dallo stato e dai sindacati): “Don’t just hope for a better life. Vote for one”. E quando, nel 1980, Ronald Reagan conquista la Casa Bianca, proclama che “la recessione è quando il tuo vicino perde il suo lavoro, la depressione è quando tu perdi il tuo, la ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo”.  In questo contesto, e di fronte a un fenomeno tanto vasto, era certo inevitabile che anche l’Italia fosse spinta ad adottare politiche “neoliberiste”. Ma non ci fu nel nostro paese un equivalente di Thatcher e Reagan: “In paesi come l’Inghilterra il buon Dio fa nascere le signore Margherite – dichiarò il socialista Giuliano Amato, neoministro del Tesoro del governo D’Alema –. L’Italia affida alla sinistra sia il compito di liberare società ed economia, sia quello di non creare disuguaglianze”). Gran parte del neoliberismo italiano non fu dunque endogeno, ma importato: come tra le righe riconosce lo stesso Dilmore, fu essenzialmente effetto del recepimento delle direttive europee nei vari ambiti e dell’obbligo di adeguarsi ai vincoli di bilancio concordati a Maastricht. Epperò questo percorso, partito in realtà già con l’ingresso nello Sme nel 1979 e conclusosi con l’adesione dell’Italia all’euro, è stato uno dei maggiori successi della sinistra. È allora difficile sostenere, come fa Dilmore, che la sinistra abbia attuato l’agenda neoliberista suo malgrado, “perché i costi economici di strategie realmente alternative in un mondo sempre più globalizzato e finanziarizzato sarebbero stati molto elevati” e pertanto la sinistra, quando arrivò al governo negli anni Novanta, si adeguò a questa ondata controvoglia secondo il motto “If you can’t beat them, join them, casomai cercando di mitigare l’impatto sulle diseguaglianze o sulla disoccupazione”. La realtà è che, dopo che le macerie del Muro di Berlino travolsero il socialismo, la sinistra adottò convintamente l’europeismo come prospettiva ideale e politica, insieme alla nuova costituzione economica che l’Europa proponeva: indipendenza della banca centrale, bassa inflazione, disciplina fiscale (riduzione del disavanzo e quindi del debito pubblico), concorrenza (liberalizzazioni), ridimensionamento dell’intervento pubblico (privatizzazioni), apertura al commercio internazionale (globalizzazione). 

   

Berlusconi, che secondo la vulgata avrebbe cavalcato la presunta ondata neoliberista che si è abbattuta sull’Italia, non ha toccato palla fino al 2001, quando ormai tutte le più importanti riforme “neoliberiste” erano già state fatte dalla sinistra per entrare nell’euro. Troppo neoliberismo o troppo poco?

  

Se in Italia c’è stata una svolta “neoliberista” questa è essenzialmente coincisa con l’integrazione europea. Il nostro paese non ha fatto nulla di più, anzi qualcosa di meno, del minimo sindacale chiesto dall’Europa nel suo lungo processo di integrazione economico-istituzionale. Di questa evoluzione furono protagonisti a vario titolo e nei rispettivi campi Andreatta, Ciampi, Salvati, Reichlin, Amato, Napolitano, addirittura D’Alema e persino Vincenzo Visco, che da ministro delle Finanze, a fine legislatura nel 2001, si vantò della “pressoché totale fuoruscita dello Stato dalla maggior parte dei settori imprenditoriali dei quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel male, titolare”. Tutte personalità che sarebbe davvero bizzarro mandare oggi al confino con l’accusa di neoliberismo. La destra – il vero obiettivo polemico del Mulino – questa partita la giocò di rimessa. Panebianco infatti dice chiaro e tondo che le posture “neoliberiste” di Silvio Berlusconi “rimasero solo slogan”. D’altronde il Cavaliere, che secondo la vulgata avrebbe cavalcato la presunta ondata neoliberista che si è abbattuta sull’Italia, non ha toccato palla fino al 2001, quando ormai tutte le più importanti riforme “neoliberiste” erano già state fatte dalla sinistra per entrare nell’euro. Nel complesso, insomma, quel po’ di neoliberismo (o quel tanto, secondo il punto di vista di molti a sinistra e a destra) che l’Italia ha introiettato è conseguenza più della nostra collocazione internazionale che di una effettiva svolta politica; e proprio quella parte politica che dovrebbe in qualche modo attribuirsene il merito o comunque la responsabilità, è oggi in piena crisi di rigetto.

 

Dilmore contesta invece che “il danno della narrativa neoliberista” in Italia è stato prodotto soprattutto dalla destra. Con tre pesanti conseguenze in particolare: i) “Anche in Italia la progressività dell’imposta sul reddito si è ridotta significativamente, con l’aliquota massima che è passata dal 72 per cento del 1982 al 43 per cento attuale”; ii) “La quasi-abolizione della tassa di successione effettuata dal governo Berlusconi”; iii) “La retorica neoliberista ha dunque fornito una giustificazione idelogico-intellettuale a uno dei mali endemici del nostro paese: l’evasione fiscale”. In realtà, nessuna di queste tre affermazioni è fattualmente vera e qualcuna non è necessariamente una caratteristica del “neoliberismo”. Per quanto riguarda il disegno dell’imposta sul reddito, Dilmore – come capita a quasi tutti, a partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein – osserva solo il numero di aliquote e il valore nominale dell’aliquota massima, ignorando la definizione della base imponibile e l’incidenza delle imposte sul totale dei redditi conseguiti dai contribuenti. Un lavoro degli economisti Massimo Baldini, Silvia Giannini e Simone Pellegrino mostra che “negli ultimi quarant’anni l’effetto redistributivo dell’Irpef è quasi raddoppiato”, col risultato che abbiamo “un’imposta tendenzialmente più equa oggi rispetto agli anni Settanta, con aliquote medie inferiori fino a 20 mila euro (dove si concentra più della metà dei contribuenti) e superiori successivamente”. Negli ultimi 50 anni, il gettito dell’Irpef è passato dal 2 per cento al 10 per cento del pil e contemporaneamente l’aliquota media è diminuita per il 20 per cento delle famiglie più povere, mentre è aumentata molto per tutte le altre fasce di reddito, compreso il 10 per cento più ricco. Quindi non è vero che l’Irpef sia diventata meno progressiva e redistributiva: è accaduto il contrario.  Per quanto riguarda l’imposta di successione, è vero che il Cav. l’ha sostanzialmente abolita nel 2001, ma non si può ignorare che tale decisione arriva esattamente un anno dopo la riforma voluta da Romano Prodi, che aveva ridotto le aliquote dal 3-33 per cento al 4-8 per cento. Inoltre, nel 2006 fu di nuovo Prodi a reintrodurre l’imposta ripristinando le aliquote soppresse da Berlusconi. Lo stesso (neoliberista?) Vincenzo Visco ha riconosciuto che “il gettito dell’imposta è stato ed è piuttosto limitato, e anche la sua efficacia redistributiva è sempre stata molto ridotta”, preferendovi quindi una patrimoniale ordinaria.

 

Per quanto possa avere un valore simbolico, la tassa di successione in tutti i sistemi fiscali non raccoglie che lo zero virgola qualcosa del pil. Se, come correttamente scrive Dilmore “la riduzione dell’imposizione fiscale, precondizione e preludio alla riduzione del ruolo dello stato nell’economia (starve the beast), è sempre stato un cavallo di battaglia dei teorici del neoliberismo”, è a questo indicatore che bisogna guardare per valutare se e di quanto la battaglia sia stata vinta. Ebbene, negli ultimi trent’anni di presunto “neoliberismo” la pressione fiscale in Italia è passata dal 38,9 per cento del 1992 al 43,5 per cento del 2022: 4,6 punti di pil in più. Di conseguenza, se è notevolmente aumentata la pressione fiscale non è neppure corretta l’affermazione di Dilmore secondo cui “durante i trent’anni di egemonia della narrativa neoliberista” l’Italia ha subito “tagli al welfare state”, un’altra arma che fa “parte integrante dell’arsenale neoliberista”. Negli ultimi trent’anni, dati Ocse, la spesa sociale in Italia è passata dal 21,7 per cento del pil nel 1992 al 30 per cento nel 2022: 8,3 punti di pil in più. Che poi questa spesa sociale sia redistribuita malissimo, prevalentemente in pensioni più che per le famiglie, le politiche attive del lavoro, il contrasto alla povertà o l’istruzione, non è certo un’indicazione dell’“agenda neoliberista”. Anzi, mostra solo quanto fosse insostenibile il precedente sistema previdenziale nato negli anni del “compromesso socialdemocratico” e cosa sarebbe successo in peggio senza le riforme “neoliberiste” delle pensioni a partire dagli anni 90.  Infine, per quanto riguarda l’evasione fiscale, a cui “la retorica neoliberista” avrebbe “fornito una giustificazione idelogico-intellettuale”, c’è da dire che non è esattamente una caratteristica del neoliberismo. Nel senso che in tutti i paesi occidentali che hanno avuto dosi più massicce di neoliberismo, come ad esempio gli Stati Uniti e il Regno Unito, il tasso di evasione è notevolmente più basso. E non è neppure vero che l’evasione fiscale sia una caratteristica peculiare del neoliberismo italiano: è piuttosto un male endemico del paese, un prodotto della sua cultura istituzionale e del suo sistema produttivo. Negli ultimi decenni, anzi, stiamo assistendo a una costante riduzione dell’evasione fiscale. I dati, ad esempio quelli diffusi dalla Banca d’Italia, mostrano che all’inizio degli anni 80, verso la fine del “compromesso socialdemocratico”, la propensione a evadere l’Iva era del 35-40 per cento. Negli ultimi trent’anni di “egemonia neoliberista”, e soprattutto negli ultimi venti, il tax gap dell’Iva è sceso ora al 20 per cento. Un quasi dimezzamento.  

 

Se il neoliberismo in Italia non ha dunque fornito quel collante ideologico che ha invece segnato la vicenda di altri paesi, si può dire che esso sia stato del tutto privo di effetti? Da un lato, è abbastanza ovvio che il neoliberismo importato (per il tramite dell’Unione europea) ha contribuito a plasmare l’economia italiana di oggi. Se facciamo un esercizio di fantapolitica, è difficile immaginare che – in assenza degli obblighi europei – l’Italia avrebbe introdotto quel po’ di concorrenza e quel po’ di disciplina di bilancio che abbiamo conosciuto. Basti dire che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato venne creata nel 1990 e che fu solo grazie alle privatizzazioni (del centrosinistra) e alla fine degli aiuti alle imprese di stato (accordo Andreatta-Van Miert) se, per un breve periodo, abbiamo ridotto l’incidenza del debito pubblico sul pil attorno al 100 per cento (salvo poi riaprire i cordoni della borsa, col centrodestra).

 

Sarebbe però ancora più ingenuo dedurne che, allora, l’Italia è un paese neoliberista. Lasciamo a Dilmore la scelta dei parametri su cui misurare i gradi di neoliberismo di un paese: la pressione fiscale è aumentata; la spesa pubblica totale è aumentata; la spesa sociale, in particolare per la previdenza, è aumentata.  C’è però un dato che, più di tutti, dovrebbe far riflettere. Accettiamo pure la tesi di Dilmore, secondo cui l’Italia – essendo parte di un mondo globalizzato e interconnesso – è stata esposta al neoliberismo, seppure con caratteristiche sue proprie, con intensità e coerenza inferiori al resto del mondo. Nel periodo 1990-2022 – l’epoca del neoliberismo – il mondo è cresciuto a un tasso medio del 2,9 per cento. I paesi simbolo del neoliberismo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, rispettivamente del 2,4 e dell’1,8 per cento; l’Unione europea dell’1,7 per cento. L’Italia dello 0,7 per cento. Ora: il neoliberismo ha prodotto un’espansione economica senza precedenti ovunque nel mondo, e specialmente nei paesi che lo hanno interpretato in modo più radicale, mentre l’Italia è uno dei pochissimi paesi che hanno guadagnato meno dell’1 per cento annuo. Ecco: se tutto questo è vero, la stagnazione italiana è colpa della mano invisibile del neoliberismo o di quella visibile dello statalismo? Insomma, non viene il dubbio che il problema dell’Italia non sia che c’è stato troppo neoliberismo ma che ce n’è stato troppo poco?

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