In Europa
La Corte di Giustizia boccia il Golden power ungherese. Lezioni per noi
Il caso riguardante il veto all’acquisizione di una società che gestisce una cava, da parte di una società di diritto ungherese, deve essere letta con attenzione dal governo italiano, il quale pochi giorni fa ha inviato al Parlamento la relazione per il 2022
Dopo anni di irresistibile espansione del controllo sugli investimenti esteri in tutta Europa, la Corte di giustizia, con la sentenza nella causa C-106/22 del 13 luglio, ha, per la prima volta dai tempi delle ormai antiche pronunce sulla golden share, posto un limite alla pretesa degli Stati membri di esercitare poteri speciali di veto e di prescrizione in un numero crescente di settori e di casi. Per battere un colpo è stato necessario attendere un provvedimento ‘esorbitante’ da parte di un governo non molto amato a Bruxelles, quello ungherese (a proposito, lode al giudice nazionale che ha sottoposto la questione preliminare alla Corte di Lussemburgo). Il caso riguardava il veto all’acquisizione di una società che gestisce una cava di ghiaia, sabbia e argilla da parte di una società di diritto ungherese retta da una complessa catena di controllo.
Sul piano soggettivo, il caso presentava qualche insidia. L’acquirente, infatti, è posseduta da una società tedesca, controllata da una società lussemburghese, a sua volta detenuta da una capogruppo stabilita alle Bermuda, in ultima istanza appartenente a un cittadino irlandese. Ma la Corte di giustizia ha risolto la questione in modo pragmatico, respingendo le preoccupazioni dell’Avvocato generale (suggerite anche dal Governo italiano nel suo intervento) circa il rischio di aggiramento delle regole europee. Secondo la Corte, infatti, nonostante l’influenza esercitata da una società registrata in un Paese terzo, la sostanza economica dell’operazione è intraeuropea (la società acquirente magiaro-tedesco-lussemburghese già comprava circa il novanta per cento delle materie estratte dalla società acquisita e l’ultimate owner è un cittadino irlandese). Pertanto, il Reg. 452/2019 (paragonato dall’Avvocato generale a un «ornitorinco» per la sua natura ambigua, dato che non pone prescrizioni davvero vincolanti) non si applica e il caso va risolto alla luce della sola libertà di stabilimento di cui beneficiano le società dell’Unione ai sensi dell’articolo 54 del Trattato.
Sul piano oggettivo, invece, la Corte ha avuto gioco facile, osservando che il meccanismo di controllo ungherese, come applicato nel caso di specie, costituisce una grave restrizione alla libertà di stabilimento che non può essere giustificata dall’obiettivo di garantire la sicurezza dell’approvvigionamento a favore del settore edile locale di materie prime come la ghiaia, la sabbia e l’argilla. Tale obiettivo, infatti, non rientra tra gli "interessi fondamentali della collettività", come quelli relativi alla sicurezza dell’approvvigionamento nei settori del petrolio, delle telecomunicazioni e dell’energia, che secondo la giurisprudenza europea possono eccezionalmente giustificare una tale restrizione per fini di ordine e sicurezza pubblica. La Corte di giustizia ha così finalmente battuto un colpo ricordando i pilastri della costruzione europea e i fondamenti del libero mercato. Da questo punto di vista, la sentenza invia un segnale chiaro e forte ben al di là di Budapest, rivolto a tutti gli Stati membri, che, soprattutto a seguito della pandemia, hanno esteso l’applicazione della disciplina alle acquisizioni operate da investitori europei. Per scrutinare queste ultime, infatti, la Corte chiarisce che non ci si può invocare lo schermo protettivo del Reg. 452/2019, nemmeno quando nella catena di controllo figura una società extraeuropea. Infatti, se l’operazione interessa prevalentemente il mercato interno e l’acquisizione è effettuata da società di diritto europeo (a maggior ragione se l’ultimate owner è un cittadino dell’Unione) riprendono pieno vigore le garanzie assicurate dai Trattati alla libertà di stabilimento. Per quanto appaia lontana, dunque, la sentenza sul caso ungherese deve essere letta con attenzione anche dal Governo italiano, il quale pochi giorni fa ha inviato al Parlamento la relazione per il 2022. I dati segnalano un ulteriore aumento delle notifiche (da 496 a 608) e alcune ormai palesi irrazionalità del sistema (a cominciare dal fatto che più della metà, 314, si è rivelata non dovuta). Per quanto i casi di veto e di esercizio dei poteri speciali rimangano relativamente pochi (rispettivamente 4 e 8, ma con numeri in crescita nel 2023), le misure oggi in vigore e quelle che potranno essere adottate in futuro riguardare anche acquisizioni effettuate da investitori europei e persino italiani, in imprese e settori che, pur non estendendosi al caso davvero limite dell’estrazione di ghiaia, argilla e sabbia, hanno talora collegamenti alquanto fragili (e talvolta anche un po’ melmosi) con i settori davvero strategici.
tra debito e crescita