l'analisi
Botte piena, inflazione ubriaca
Governo, opposizione, Confindustria e Cgil. Nell’ultimo anno, in Italia è nata una coalizione trasversale e dissociata: contesta i rialzi dei tassi della Bce e al contempo protesta per l’aumento dei prezzi. Storia di una degenerazione populista
L’Italia è un paese litigioso, non c’è argomento – neppure l’invasione di uno stato libero e indipendente da parte di una potenza imperialista – sui cui si riesca a trovare una posizione comune. Eppure c’è un fenomeno, la più grave emergenza economica del paese, su cui i partiti hanno unanimità di vedute. Sull’inflazione sono tutti d’accordo, ma sulla posizione sbagliata: il contrasto alla politica monetaria della Bce. E sono d’accordo persino quando litigano.
Pochi giorni fa, in un talk-show si poteva assistere alla surreale scena di due importanti dirigenti politici, il vicepresidente del M5s Michele Gubitosa e il capogruppo al Senato di FdI Lucio Malan, che bisticciavano mentre sostenevano, senza rendersene conto, la stessa tesi e per giunta erronea: “La Bce fa male ad alzare i tassi”. È questa la litania che va avanti ormai da un anno. Da quando la Bce ha avviato, probabilmente con ritardo, la stretta monetaria.
A inizio settembre 2022, nel pieno della campagna elettorale, Andrea Orlando del Pd dichiarava: “La decisione della Bce – di alzare di 75 punti base i tassi di interesse – indebolisce gli sforzi che gli stati stanno facendo per aiutare famiglie e imprese. Il ritorno a vecchie ricette ci preoccupa molto”. Orlando doveva avere in tasca una ricetta nuova per contrastare, senza toccare i tassi, l’inflazione galoppante che allora aveva superato il 9 per cento. A dare man forte al ministro del Lavoro uscente di sinistra ci pensò il ministro della Difesa entrante di destra, Guido Crosetto: “Lungi da me difendere Orlando ma alzare i tassi con la più grande crisi economica dal dopoguerra nelle case e nelle aziende ed un’inflazione che certamente non dipende da una crescita eccessiva della domanda, è utile sotto quale aspetto?”.
Un paio mesi dopo, Crosetto criticò “il regalo di Natale che la presidente Lagarde ha voluto fare all’Italia” dicendo che “non ha senso alzare i tassi”. E così è stato un crescendo, fino all’ultimo rialzo dei tassi di fine giugno. Dal lato del governo, con attacchi alla Bce da parte dei due vicepremier Antonio Tajani (“Così ci trascina verso la recessione”) e Matteo Salvini (“È una scelta insensata e dannosa, la Lagarde ha un mutuo a tasso variabile?”). E dal lato dell’opposizione, con il responsabile economico del Pd Antonio Misiani (“I tassi della Bce sono saliti di 400 punti in meno di un anno. È un record, da quando esiste l’euro. Serve grande prudenza, un ulteriore aumento sarebbe una pessima notizia per le imprese e le famiglie”) e il leader del M5s Giuseppe Conte, sostenitore come Erdogan della bizzarra teoria secondo cui sarebbero i rialzi dei tassi a causare l’inflazione (“La Bce deve muoversi cum grano salis. Non può riproporre una politica monetaria così diretta se no rischia di contribuire alla spirale a cui stiamo assistendo”). C’è persino chi, come l’ex responsabile economico del Pd, ora vicino a Elly Schlein, Emanuele Felice su Domani sostiene che la Bce deve abbandonare il target, previsto dallo statuto, di tenere l’inflazione al 2 per cento.
Allo stesso modo, oltre alla politica, la pensano le parti sociali. Il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, usa ormai una retorica da No euro fuori tempo massimo: “Dobbiamo capire se la Bce è la banca centrale tedesca o la banca centrale europea”, ha detto parlando di “annunci deleteri sull’aumento dei tassi”. Perfetta sintonia con il suo antagonista, il segretario della Cgil Maurizio Landini: “L’annuncio del presidente della Bce, di un ulteriore aumento a luglio, rappresenta una scelta sbagliata e controproducente per l’intera economia europea”.
Nessuno sembra rendersi conto che l’inflazione in Italia è ancora al 6,7 per cento – 1,2 punti sopra la media dell’Eurozona – e che è stata per tutto l’anno superiore alla Germania, un altro paese molto esposto allo choc energetico. Per nessuno pare essere un problema che l’inflazione di fondo, quindi al netto dell’energia, sia al 5 per cento e che la stessa Bce ormai metta in conto che l’inflazione potrebbe tornare al 2 per cento solo nel 2025. C’è una completa dissociazione tra la malattia (l’aumento dei prezzi) e la cura (la politica monetaria). Come se la prima possa sparire senza la seconda.
Così, in maniera grottesca, il governo il lunedì attacca la Bce per l’aumento dei tassi con il ministro Salvini e il martedì si prende il merito per il calo dell’inflazione con il ministro Francesco Lollobrigida (“L’inflazione mostra segni di calo. Grazie agli interventi del governo Meloni i prezzi al consumo scendono”). Specularmente, l’opposizione il mercoledì attacca il governo per i danni enormi causati dall’aumento dei prezzi alle famiglie e il giovedì contesta la stretta monetaria della Bce che serve a contrastare l’inflazione.
È il trionfo del populismo, che in politica economica si manifesta con la rimozione del concetto di trade-off. Tutti – governo e opposizione, datori e sindacato – vogliono la botte piena e la moglie ubriaca: l’inflazione che si abbassa e i tassi che non si alzano. Un atteggiamento così diffusamente demagogico e immaturo non ha eguali in Occidente. Per trovare qualcosa di analogo, bisogna andare in Sudamerica. E in effetti ciò che ci differenzia e difende da una deriva argentina è l’esistenza della Bce, che si riunirà il 27 luglio per decidere, con tutta probabilità, un ulteriore rialzo dei tassi di 25 punti.