(foto EPA)

l'analisi

No: gli aiuti di stato non servono per tutelare “l'impresa nazionale”

Guglielmo Barone

Diversamente da quanto suggerito dalla retorica sovranista, in linea generale il bene da difendere non è l’impresa nazionale in quanto tale ma il sistema di regole che permette una concorrenza leale

Nel mese di luglio è entrato in vigore un nuovo regolamento europeo (il 2022/2560) che disciplina gli aiuti che le imprese operanti sul mercato comune potrebbero ricevere da governi extra-UE perché, per esempio, da essi controllate. È una questione un po’ tecnica ma che riguarda le vite di tutti noi europei e rimanda anche a questioni più generali. Andiamo con ordine riavvolgendo il nastro degli eventi. Uno dei pilastri della casa europea è quello del mercato comune interno che, dal 1993, permette a cittadini, capitali, merci e servizi di muoversi liberamente all’interno dell’UE. Anche grazie a esso, oggi l’UE vale il 15% dell’economia globale ed è uno dei principali mercati mondiali. L’idea di fondo è che un mercato comune riduce i costi di transazione e stimola la competitività delle imprese, permettendo alle migliori di emergere.

Un elemento costitutivo del mercato interno è la regolamentazione degli aiuti di stato, ovvero la limitazione della congerie di agevolazioni fiscali, erogazioni varie, prestiti agevolati, garanzie sul credito, etc. che gli stati nazionali offrono selettivamente ad alcune imprese favorendole quindi a scapito dei concorrenti. Insomma, si richiede che nella gara della concorrenza tutte le imprese partano dalla stessa linea: un principio sacrosanto a cui nulla toglie un enforcement effettivo non sempre soddisfacente, come sottolineato nell’ultima relazione del presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato Rustichelli. Negli ultimi anni la Commissione ha preso sempre più consapevolezza che, in un mondo che si globalizza, regolamentare il comportamento degli stati membri sugli aiuti non è sufficiente.

 

Sul mercato interno, infatti, operano anche imprese che possono ricevere sussidi da paesi extra-UE, non tenuti al rispetto della normativa. Questo mina il principio fondamentale della parità delle condizioni di partenza e genera concorrenza sleale. Quanto grande è questo fenomeno? L’evidenza aneddotica suggerisce che, per esempio, la Cina stia investendo gli enormi surplus derivanti dall’avanzo commerciale in acquisizioni di imprese europee (e non solo). Inoltre, in un lavoro con Marco Letta abbiamo recentemente stimato che circa il 10% delle imprese europee riceva aiuti dall’esterno dell’area. Anche facendo la tara a questa stima, che risente inevitabilmente di un ineliminabile errore statistico, si tratterebbe comunque di un fenomeno certamente non trascurabile: sembra proprio che l’UE, con i suoi 450 milioni di consumatori benestanti e le tante tecnologie si cui è dotata, sia un mercato molto appetibile su scala mondiale nonostante una certa narrazione declinista.

 

Ebbene, arriviamo così a oggi con il nuovo regolamento che disciplina i sussidi provenienti da paesi extra-Ue. La norma, in estrema sintesi, dice che la Commissione può avviare di sua iniziativa indagini sull’esistenza di aiuti dall’estero e, eventualmente, sanzionare le imprese beneficiarie se il sussidio lede la concorrenza. La disciplina riguarda anche le grandi concentrazioni tra imprese (fusioni e acquisizioni) e gli appalti pubblici di importo elevato: se, rispettivamente, la concentrazione o l’aggiudicazione sono state favorite impropriamente da una agevolazione straniera, la Commissione può persino arrivare a bloccare l’operazione. Questa storia ci insegna due cose. Primo, diversamente da quanto suggerito dalla retorica sovranista, in linea generale il bene da difendere non è l’impresa nazionale in quanto tale ma il sistema di regole che permette una concorrenza leale: l’uguaglianza nelle opportunità ex ante contrapposta alla protezione ex post di rendite godute da imprese inefficienti in nome, nel nostro caso, dell’italianità (e, da Alitalia ai balneari, passando per i tassisti, l’Italia resta un caso di scuola, in negativo). Secondo, le sfide economiche globali come, per esempio, l’avanzata della Cina, non possono che essere affrontate a livello sovranazionale, specie da parte di paesi relativamente piccoli, con buona pace di ogni nazionalismo. 

Guglielmo Barone

Università di Bologna

Di più su questi argomenti: