A Hollywood continuano gli scioperi, anche a tavola

Michele Masneri

Protestano anche i lavoratori dei fast food, ma non se li fila nessuno

Los Angeles. Non si sa se anche le maestranze di “Boris” scenderebbero in piazza oggi a fianco dei lavoratori del cinema hollywoodiano ma quello che è certo è che l’unica cosa seria è sempre e solo la ristorazione. Hanno ben dire e sfottere i tanti critici degli scioperanti – sul Wall Street Journal Matthew Hennessey scrive più o meno: tornate a lavorare, o fate quello che volete, guarderemo altri programmi – ma la città è abbastanza in affanno per uno dei più grandi scioperi di autori e maestranze della tv e del cinema che si siano mai registrati. 

 

Soprattutto i ristoranti. Da Lulu, nuovo avamposto “organic” della guru Alice Waters, da poco aperto nel museo Hammer, dunque al centro della hollywoodianità, si mormora e si mugugna. Siamo proprio al centro della questione, perché Hammer è una famiglia delle più influenti di California (petrolieri e produttori di cinema) il cui ultimo rampollo, Armie, già protagonista di “Chiamami col tuo nome”, è notoriamente accusato di cannibalismo. Nel ristorante del museo però non si mangia carne umana ma deliziosi piatti bio. “Non posso stare troppo che poi devo andare a scioperare”, fa un signore, professione set designer, mentre degusta un rosé ghiacciato seduto all’aperto. 

 

Ma come scioperate a Hollywood, gli si chiede con grande curiosità, abituati al deserto Atac a Roma di ogni venerdì. Lui si fa tutto serio: “La formula più utilizzata è prendere la macchina, e andare a suonare il clacson davanti agli studios della Sony, o della Disney. Volete venire anche voi?”. Magari più tardi, e certo sembra una forma di protesta acconcia, in macchina con l’aria condizionata, con ’sto caldo. E Hennessey, forse con lo zelo dello spretato (è un ex attore) può ben prendersi gioco di questi scioperati o scioperanti, ma qui è una cosa seria. “Meno male che son riusciti a fare la prima di ‘Barbie’ prima dello sciopero”, mi dice un’altra signora che lavora nella ristorazione. Perché poi le prime e le anteprime, con tutto il corollario di cene, pranzi, inaugurazioni, catering, sono bloccate. Son soldi, e posti di lavoro. Il mega sciopero riguarda più o meno 11.500 autori (non c’è solo il cinema ma tutte le trasmissioni). E’ come se a Roma scioperasse la pubblica amministrazione, o a Milano la moda, vi ricordate col Covid la crisi dei bar per le pause pranzo? Si pensa che i danni saranno almeno di 3 miliardi di dollari a livello di indotto – l’ultimo sciopero grosso fu quello degli sceneggiatori del 2007-2008 e costò 2,1 miliardi di dollari di mancati fatturati.

 

Secondo Lee Ohanian, economista della Ucla, il pil della città rischia un crollo del 20 per cento. Fermandosi le produzioni, crolla tutto: hotel, costumisti, truccatori, microfonisti, noleggiatori vari; ma tra i più toccati sono i ristoranti. Yeastie Boys, la più famosa catena di food truck della città, ha visto un tonfo del 15 per cento delle vendite e la cancellazione di tutti i “cestini” sui set. Alcuni sostengono i valorosi compagni cinematografari: Drew Carey, celebre conduttore televisivo, ha annunciato che pagherà di tasca sua tutti i pasti consumati al famoso Swingers, istituzione losangelina dove pascolano attori e maestranze, a chi esibirà la tessera del Wga, la Writers Guild of America, uno dei sindacati che guidano la protesta. Insomma gli scioperanti non moriranno di fame e mangeranno (sano, perché siamo pur sempre in California). 

 

Gli scioperi vanno avanti da tre mesi, essendo partiti il 1° maggio. “Le comparse vengono riprodotte nelle scene di sfondo con l’intelligenza artificiale, tu fai una scena e ti ritrovi in dodici, e nessuno ti paga per le mancanti undici” continua il mio scioperante a tavola. In particolare ha fatto scandalo che Netflix proprio durante le ultime proteste e in un momento in cui tutti stanno tagliando i costi abbia pubblicato un’offerta di lavoro per un “AI manager” con stipendio da 900 mila dollari l’anno. L’intelligenza artificiale è il nuovo spauracchio di Hollywood; oltretutto l’algoritmo non mangia, non si siede a tavola. Per fortuna non guida nemmeno, perché il traffico, sarà per gli scioperanti-clacsonanti, è peggio che mai. Su Wilshire, su Santa Monica Boulevard, sulla 110, è tutto un ingorgo. A parte questo, per il turista lo sciopero è una pacchia perché per la prima volta trova posto ovunque. Da Rose, storico posticino a Venice, con dehor e cocktail da 20 dollari, e “italian burrata fior di latte”, si trova un tavolo senza prenotare pure il sabato sera. Lo stesso nei ristorantini di Silverlake, quartiere super gentrificato ad alto tasso di sceneggiatori e “kale”. 

 

Nel frattempo a Los Angeles ci sono pure altre proteste: quella dei lavoratori degli hotel che chiedono un salario minimo di 19 dollari orari, e quella degli impiegati dei fast food, in una perfetta “hot labor summer” come è stata immediatamente definita l’estate calda sindacale. Ma specialmente questi ultimi non se li fila nessuno (perfino l’intelligenza artificiale fa meno paura dei grassi idrogenati di un panino di McDonald’s). 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).